Nell’ufficio di consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, presso lo studio ovale del presidente, l’avevano preceduto personaggi come Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski, Colin Powell, Condoleezza Rice. Lui non era del loro calibro. Falco della stessa risma, certo. Ma senza una dottrina e una parvenza di visione, se non la cristallina pulsione a scatenare guerre nei diversi angoli del pianeta. Guerrafondaio puro. Non l’avessi fermato io, ha detto una volta Trump, saremmo già coinvolti in almeno quattro guerre.

Ieri John Bolton è stato cacciato con un tweet brutale dal presidente: non ho più bisogno dei tuoi servizi. Via. Tra una settimana il successore. Il quarto National Security Adviser dopo Flynn, McMaster e Bolton di un’amministrazione che passerà alla storia per la decimazione dei suoi ministri.

Trump non sopportava Bolton. Si dice, innanzitutto per via dei baffi. Come il suo antesignano italiano, Berlusconi, il presidente Usa diffida di barbuti e baffuti. Steve Bannon ha raccontato a Michael Wolff, l’autore di Fire and Fury, il best seller sui retroscena della Casa Bianca di Trump, che il presidente «pensa che uno così non sia nella parte» che gli è affidata. «I baffi di Bolton sono un problema», confidava Bannon, rassegnandosi all’idea che il «suo» candidato, prima alla carica di segretario di stato poi a quella di consigliere per la sicurezza nazionale, non ce l’avrebbe mai fatta a entrare nella cerchia ristretta del presidente. Così è avvenuto.

Come nella migliore tradizione della politica estera e militare americana, il consigliere per la sicurezza nazionale è in competizione con il segretario di stato e con il capo del Pentagono. Su molte materie si sovrappongono, ma il consigliere ha accesso diretto al presidente e può influenzarlo molto più di un ministro. In diversi casi, il consigliere per la sicurezza nazionale è riuscito a scalzare il segretario di stato e a rubargli anche il posto. Bolton è stato bravo a inimicarsi sia il presidente che l’apparato militare e spionistico; ma sopratutto il suo più diretto «concorrente», Mike Pompeo, l’ex-capo della Cia, assurto al ruolo di capo della diplomazia, lui sì nei favori di Trump. Falco e guerrafondaio tanto quanto Bolton, ma evidentemente più abile nell’assecondare le intemperanze e gli zig zag improvvisi e imprevedibili del Capo.

Il “tricheco”, come affettuosamente chiamano l’uber-hawk, il superfalco, negli ambienti della diplomazia americana non sarà riuscito a scatenare i conflitti che avrebbe voluto far scoppiare ma lascia comunque dietro di sé un bello strascico di disastri. Tutti sotto il comune denominatore del disfare quel che l’amministrazione Obama era riuscita a costruire e ad affermare: l’Iran Deal, la distensione con Cuba, un nuovo sistema di relazioni con l’America latina, più rispettose, un atteggiamento non subalterno verso Netanyahu, un rapporto transatlantico più paritario con l’Europa. Questo suo fervore anti-obamiano l’ha fatto entrare nelle grazie di Trump, poi una volta in carica, le sue ossessioni hanno dovuto fare i conti con un capo che non vuole consigli e consigliori, ma solo domestici che assecondano le sue capricciose giravolte. Più volte Bolton è stato pubblicamente umiliato dalle improvvise decisioni del presidente, che contraddicevano, anche nel giro di pochi minuti, e spesso via twitter, sue affermazioni dottrinarie definitive, come negli incontri con Kim, con le aperture all’iraniano Hassan Rouhani e, in ultimo, alla dirigenza dei talebani afghani, invitati addirittura a discutere a Camp David, proprio nei giorni della ricorrenza dell’attentato alle Torri gemelle. Too much, troppo, per il “tricheco”.

Al di là di questi episodi che costellano la presidenza Trump – molti nel perimetro degli affari internazionali, i più importanti per una superpotenza come l’America – la domanda più di fondo resta: quali sono in effetti le linee guida che orientano quelle che appaiono decisioni emotive e perfino irrazionali?

È evidente che se c’è una dottrina Trump, ha poco in comune sia con il classico interventismo sia con l’isolazionismo, il primo prevalentemente di stampo democratico, il secondo repubblicano. È una condotta che sicuramente spiazza i vecchi apparati: diplomatico, militare e spionistico. E spiazza alleati e nemici dell’America. Una spiegazione è nel suo continuare a essere un uomo d’affari che fa politica e guida l’America con la protervia del tycoon, una linea che finora gli ha anche reso, se solo si guarda al modo con cui riesce a tenere testa alla Cina, l’unico vero attore internazionale in grado di fare paura all’America. Sugli altri dossier, ha molto minacciato ma finora poco agito di conseguenza. Ma proprio perché non si vede una visione complessiva che orienti il suo operato, non è detto che quello che si è visto finora sarà confermato nell’ultimo scorcio della sua presidenza, caratterizzata da una campagna elettorale per una rielezione molto difficile. Insomma, il siluramento del baffuto guerrafondaio non significa che una guerra, la guerra, sia scongiurata.