Nessun rispetto per la democrazia diretta che ispira il nuovo – si fa per dire – governo. Dopo la sberla degli oltre 19 milioni di No il governo tenta la difficile strada della restaurazione. Solo che la storia si ripete in farsa.

Il governo fotocopia ne è la più evidente dimostrazione. Ma non va sottovalutato, come tutti i colpi di coda. La partita ora si gioca sulla natura della legge elettorale, che deve essere di tipo proporzionale se si vuole tenere conto della volontà dei cittadini e dei rilievi della Consulta sul tema della rappresentanza (sentenza 1/2014). E contemporaneamente sulla possibilità di esprimersi nei referendum sul lavoro.

Dalla segreteria del Pd tentano di salvare il soldato Poletti, sostenendo che il rinvio del referendum in caso di elezioni nella prossima primavera sarebbe inevitabile perché previsto dalla legge istitutiva del referendum stesso. Ma la memoria è corta.

È già successo in un non troppo lontano passato che tale impedimento previsto da una legge ordinaria venisse rimosso. Successe nel 1987, quando si votò per le elezioni politiche anticipate il 14 giugno e nell’autunno dello stesso anno, l’8 e il 9 novembre, si tennero cinque referendum, che ottennero sia il quorum che il parere favorevole di una nettissima maggioranza dei cittadini. I temi fondamentali erano quelli della responsabilità civile per i magistrati e della fine del nucleare. Il tutto poté accadere perché una leggina, la n.332 del 7 agosto del 1987, stabilì una deroga ai vincoli posti dalla normativa generale sui referendum.

Le condizioni politiche di allora erano ben diverse, tuttavia si tratta di un precedente cui potersi validamente appellare per chiedere che anche in questa occasione la volontà popolare sia pienamente rispettata.

Nessuno vuole togliere al capo dello Stato la prerogativa di decidere sullo scioglimento delle camere, ma non vi è dubbio che la fine anticipata della legislatura sia implicita nel senso del voto referendario del 4 dicembre.

Infatti le sue conseguenze non sono solo la solenne bocciatura della «deforma» costituzionale, ma anche dell’Italicum alla prima indissolubilmente legato. D’altro canto la Corte Costituzionale è convocata il 24 di gennaio per discutere le 5 ordinanze di legittimità costituzionale in via incidentale giunte dai Tribunali di Messina, Torino, Perugia, Trieste e Genova.

Circolano voci diverse sulle intenzione dei giudici costituzionali. A noi non resta che aprire subito nel paese una battaglia politica e culturale per un pieno ritorno al proporzionale ed augurarci che la sentenza della Consulta sia così puntuale e chirurgica da offrire una legge in grado di essere immediatamente operativa.

Prima ancora, l’11 gennaio, la Corte si riunirà per decidere sulla legittimità costituzionale dei quesiti sul lavoro e successivamente il governo dovrà fissare una data per il voto referendario in un giorno compreso fra il 15 aprile e il 15 giugno.

Se appare politicamente improbabile che questo possa anticipare la decisione di scioglimento delle camere, la soluzione per tenere entrambi i voti nel 2017 è quella di una norma in deroga.

Siamo infatti di fronte a due obblighi democratici da rispettare: quello di avere finalmente un Parlamento eletto in modo costituzionalmente legittimo e quello di fare esprimere i cittadini su richieste referendarie supportate da ben oltre tre milioni di firme, e di farlo prima che la precarizzazione abbia del tutto seppellito il diritto del e al lavoro. Nessuno dei due può essere a scapito dell’altro.