Il compito affidato dal capo dello Stato alle due commissioni di saggi è chiaro.  Potremmo sintetizzare così: «facite ammuina». Quell’ordine che – secondo una leggenda metropolitana – veniva impartito sui bastimenti del Regno borbonico allo scopo di dimostrare l’operosità dell’equipaggio e l’efficienza degli ufficiali di bordo, ma che si risolveva solo nell’obbligo di fare il massimo di confusione per impressionare le autorità in visita.

Sarebbe grave, d’altronde, se le commissioni si prendessero troppo sul serio e ritenessero di dover veramente predisporre un programma per il prossimo governo. Non hanno, infatti, nessuna legittimazione costituzionale in proposito. Né si può realmente credere ci sia bisogno di “saggi” per individuare le misure necessarie in materia istituzionale ed economico-sociale.

Basta scorrere un qualsiasi giornale per conoscere le cose da fare, anche quelle «che possono divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche» (secondo gli auspici del Quirinale). Un elenco di proposte facile a farsi: la legge elettorale, la diminuzione del numero dei parlamentari, l’abolizione delle provincie, la riduzione dei costi della politica, la riforma del bicameralismo, per la commissione che si occupa delle istituzioni; i crediti alle imprese, la questione degli esodati, la revisione del sistema degli ammortizzatori sociali, l’allentamento del vincolo di stabilità, per la commissione economico-sociale. Sono queste tutte questioni per affrontare le quali non c’è bisogno di un gruppo di studio. Le difficoltà nella formazione del nuovo governo sono evidentemente di tutt’altro tipo, propriamente politiche.

Così, esemplificando, è evidente a tutti l’urgenza della riforma del sistema elettorale, né può dirsi ci sia bisogno di formulare nuove proposte in materia. La discussione è stata sin troppo approfondita, spesso persino pedante. La paralisi che ha impedito di cambiare la legge vigente – da tutti formalmente ripudiata – ha ragioni legate esclusivamente alle diverse convenienze politiche delle parti. Si tratta ora semplicemente di scegliere, in Parlamento, tra le diverse opzioni. Lo stallo del sistema politico lo ha sin qui impedito e l’unica via per sbloccare la situazione è quella che passa per la costituzione di una solida maggioranza parlamentare. Impresa evidentemente assai ardua – ai limiti dell’impossibile – dati i rapporti di forza e le rispettive debolezze tra le forze politiche che oggi “sgovernano” l’Italia.

Ma non si può pensare che a sbrogliare la matassa possono essere dei saggi, svincolati da ogni logica di rappresentanza, scelti in base a imponderabili criteri da un organo – la presidenza della Repubblica – che non ha titolarità in merito alla definizione dell’indirizzo politico di maggioranza (bensì delicatissime funzioni di garanzia e di stimolo di queste maggioranze).

In termini assolutamente analoghi può dirsi per tutte le altre misure che dovranno essere trattate da queste due inutili commissioni. Nessuna di esse richiede ulteriori approfondimenti da parte di esperti, bensì del ritorno della politica. Pretendono tutte di essere affrontate finalmente nel merito. Per questo quel che più urge stabilire è se ci sono le condizioni per formare un governo, verificare se si può trovare una maggioranza in Parlamento che possa tradurre in leggi i programmi sin qui solo sventolati nei comizi o nelle infruttuose trattative politiche. In caso contrario, nell’impossibilità di far approvare qualsiasi proposta programmatica, si prenda rapidamente atto della profondissima crisi istituzionale e si sciolgano, appena possibile, le Camere. La tecnica del rinvio, in queste condizioni, non può che far peggiorare ancor più la già drammatica situazione di impotenza politica.

La scelta di Napolitano ha, invece, esplicitamente lo scopo di prender tempo, in attesa che le Camere – nei tempi consueti, non brevissimi – eleggano il prossimo presidente, al quale spetterà dare soluzione alla crisi «nella pienezza dei suoi poteri». Nel frattempo proseguirà il lavoro di un governo dimissionario, e dunque non più legittimato se non per l’ordinaria amministrazione, il quale adotterà raffiche di provvedimenti con una procedura che di ordinario non ha nulla, né nella forma (proseguirà l’abuso della decretazione d’urgenza), né nella sostanza (governando non grazie alla fiducia del Parlamento, bensì in base all’intesa con le istituzioni europee).

La gravità e l’urgenza del momento richiederebbero un’altra, opposta, strategia, che imponga una soluzione alla crisi senza indugio alcuno. Una volta accertata nelle consultazioni la divisione insanabile delle forze politiche, che tende ormai solo ad accentuarsi, due potevano ritenersi le decisioni più opportune. La prima, la nomina di un governo che, anche in assenza di una precostituita maggioranza in Parlamento, provasse a ottenere la fiducia al Senato e comunque riuscisse, nella sede propria, a far valere le responsabilità dei nostri rappresentanti eletti senza vincolo di mandato (la soluzione proposta da Bersani). La seconda, le dimissioni del Capo dello Stato, al fine di permettere nel più breve tempo possibile di sciogliere le Camere (le ragioni di questa scelta sono state illustrate il giorno di Pasqua sulle pagine di questo giornale).

La via dell’attesa, del prender tempo, del rinvio a dopo e ad altri, che non ha precedenti nella nostra storia repubblicana, non convince.