Dopo aver fatto delle riforme una questione vitale per il suo destino, adesso Renzi cambia le carte in tavola. E dice che le innovazioni costituzionali non sono neppure di sua paternità ma appartengono solo al lascito personale del senatore Napolitano. Insomma, il plebiscito non verterà più sulla leadership del premier toscano, in cerca di legittimazione dopo tre anni di potere assoluto, ma sul gradimento del servizio reso in questi anni dal presidente emerito. Un vero disconoscimento delle responsabilità di chi teme il popolo in rivolta e supplica di essere risparmiato dalle polveri ormai accese.

Esiste un aureo principio nella lotta politica che conviene non tradire, al costo di indispettire la saggezza postmoderna dell’esoso guru americano. Il conservatore Bismarck lo ha formulato in questi termini: «Guai allo statista i cui argomenti per entrare in una guerra alla fine non sono convincenti come erano all’inizio». Il cancelliere di ferro parlava di uno statista, ma il precetto vale anche per Renzi che di sicuro statista non è. Non conviene ingaggiare una santa guerra contro la lentocrazia del parlamento, rimuovere i senatori dissidenti, maledire i professoroni, brandire i gufi e affidarsi al giudizio di Dio del referendum, sicuro di acciuffare il grande premio che spetta a chi ha ridotto i costi della politica e divelto le poltrone di palazzo Madama, e poi scappare dalla contesa avvertendo che il chiacchiericcio contabile non paga più.

La storiella dell’abbattimento dei costi non persuade la folla distratta con un tweet (come potrebbe se il presidente del consiglio ha ordinato ai suoi e alla coldiretti di raccogliere firme inutili per il referendum solo per intascare 500 mila euro?). Neppure incanta la favola del dirottamento dei soldi risparmiati al fondo per la lotta alla povertà.
Per dichiarare lotta senza quartiere al privilegio della casta, un ceto di governo deve essere credibile, non inciampare su banali questioni di banche di famiglia, sospetti di fallimenti fraudolenti, o giochi con i fondi Unicef, spese folli di rappresentanza, assunzioni fittizie in enti pubblici, acquisto di aerei dorati.
Senza più la carta truccata dell’abbattimento dei costi, come giustificazione del taglio dell’elettività dei senatori, Renzi arruola Napolitano per trasformare il referendum in ultima frontiera a difesa della sacra stabilità.

Questa nuova trincea è però perdente come la precedente, in gran fretta abbandonata. La Spagna, che non ha ancora un governo, convive con lo spettro dell’elezione continua, e con il suo più 0,7 va meglio nei fondamentali dell’economia dell’Italia, che da un lustro venera il dogma che le elezioni vanno sospese al primo affanno e che la stabilità senza aggettivi è la sola condizione della ripresa.
Il precetto per cui il governo va appoggiato al referendum, perché sono in agguato le speculazioni più minacciose della finanza, e il mantenimento dei conti in ordine è un requisito base per la tenuta del paese, va in gambe all’aria perché proprio Renzi ha incamerato il record storico del debito pubblico e quindi espone con la sua condotta il sistema a rischi enormi.
L’oscuro presagio delle élite, che associano la difesa del governo al referendum con il tamponamento di catastrofi altrimenti inevitabili, non scalfisce l’opinione pubblica che la sensazione del diluvio l’ha già, e la ricava da un triennio di fallimenti reiterati dell’esecutivo della rottamazione nel combattere la crisi sociale.
Le arti divinatorie del guru Messina, che suggerisce a Renzi di travestirsi in Candido dell’ottimismo, non hanno la facoltà di annullare gli spiacevoli dati reali che parlano di un’economia in ginocchio.
La deflazione continua e la domanda interna è congelata, a dispetto della retorica sulla magia dei bonus governativi che rendevano infinita la lista della spesa, secondo la rinomata dottrina new economy di Pina Picierno.

Le difficoltà della congiuntura internazionale o la mazzata della brexit non possono essere invocate a scusante degli intralci della produzione se proprio le esportazioni danno segnali di vivacità e la Gran Bretagna cresce comunque dello 0,6 per cento.
La propaganda governativa, che annunciava uno scambio tra riforme strutturali del mercato del lavoro e grande ripresa, si sgonfia come un pallone trafitto da uno spillo. Quello che un tempo Marx chiamava il gallo francese perché annunciava il tempo della rivolta a tutta la vecchia Europa, ora si è tramutato in uno stridulo pappagallo che copia le ricette di Renzi sul Jobs Act.
Non è un caso se Francia e Italia sono accomunati dall’identico destino: crescita zero. O che l’Italia talloni il record continentale di giovani che né lavorano né studiano.
Lo scambio indecente, che il ministro per le riforme si vantava di aver siglato, tra riforme istituzionali per la contrazione della sovranità popolare e concessione europea di flessibilità nei conti non ha partorito che tempeste e tremore nel tesoro.

La richiesta renziana di un Sì al referendum per scroccare altra flessibilità, per sperimentare ancora la mera sospensione dei vincoli di bilancio sganciata da politiche di svolta, è l’anticamera del disastro che accompagna le manovre elettoralistiche del laurismo 2.0 e la concessione di poteri padronali illimitati.
Con le prospettive di crescita che naufragano, il governo non trae alcun giovamento dal tramutare il duello di novembre in una approvazione dello stile decisionista del governo che taglia i tempi nella ebbrezza mistica della velocità e della certezza del vincitore nel dì stesso delle elezioni (il paese che cresce di più è la Germania della proporzionale e dell’inciucio, secondo le categorie sprezzanti di Renzi).
Con gli occupati che sono appena il 57 per cento, oltre venti punti in meno del Regno Unito o della Germania, cioè con il fallimento sociale, da tutti percepito, di un triennio di narrazione grottesca, il referendum non potrà che avere il significato di un rigetto popolare di un governo dell’improvvisazione che è sensibile agli ordini della confindustria e agli sguardi della finanza.