Martedì prossimo Washington, DC. L’ultima elezione primaria. E a fine luglio appuntamento a Filadelfia. La convention democratica. La lotta di Bernie continua, a dispetto della matematica che lo considera definitivamente fuori della corsa dopo il voto in California e New Jersey, i due grandi stati, specie il primo, che avrebbero dovuto essere decisivi per sfilare a Hillary, sia pure in zona Cesarini, l’incoronazione democratica. Allora, perché continuare la sfida? «You all know it is more than Bernie», «voi tutti sapete che questo va oltre Bernie», ha detto Sanders a Santa Monica, martedì sera, parlando di se stesso in terza persona.

Tra le ovazioni dei sostenitori, in un comizio che – in qualsiasi altra precedente corsa presidenziale – avrebbe dovuto segnare la fine delle ostilità e il riconoscimento della vittoria dell’avversario.

Così fece Hillary Clinton, e l’ha rivendicato, otto anni fa, quando riconobbe che Barack Obama aveva ormai vinto le primarie democratiche. Ma allora era una sfida tra due candidati che incarnavano due storie personali e due immaginari, più che due linee politiche molto diverse tra loro. Infatti poi facilmente ricomponibili: Clinton si sarebbe trovata a rivestire il ruolo cruciale di segretario di stato nell’amministrazione guidata dal rivale. Stavolta il galateo politico c’entra ben poco. La tanto invocata unità del partito, anche. Specie se è intesa solo come un appello, seppur nobile, ai sentimenti, e non come una proposta di negoziato politico nell’interesse di entrambe le parti, due parti con visioni distanti, su alcuni punti molto distanti. Ecco perché Bernie dice che non può ritirarsi, affermando che il destino della political revolution che egli guida «va oltre» la sua persona. Se una ricomposizione sarà trovata sotto la grande tenda democratica, Sanders sarà poi parte attiva e decisiva nello sfida finale per la presidenza degli Stati Uniti contro Donald Trump. A questo esito stanno lavorando i big democratici. Non solo il presidente Obama, ma il suo vice Joe Biden, il capo della minoranza democratica al senato Harry Reid e la stessa Elizabeth Warren, spesso accomunata a Sanders come una degli esponenti di spicco della sinistra nei banchi del senato. E anche sovente etichettata come l’anti-Hillary, per la sua instancabile campagna di denuncia dello strapotere incontrollato di Wall Street, che invece coccola Clinton.

Warren, peraltro, potrebbe perfino entrare in gioco come vice di Hillary in un ticket al femminile contro il misogino Trump, dando nel contempo rappresentanza all’elettorato che sostiene Sanders. Ma questa che è solo un’ipotesi ogni tanto messa in giro dai media, è interessante nella misura in cui dà conto del livello alto, e minimo, di accordo che potrebbe essere siglato, conditio sine qua non perché Sanders s’impegni attivamente al fianco di Hillary e mobiliti i suoi sostenitori affinché una candidata che non gradiscono raggiunga l’obiettivo della presidenza.

Molto dipenderà da Hillary e dai suoi strateghi. Nel corso della sfida elettorale, Clinton ha progressivamente spostato a sinistra la sua linea, specie quando si è resa conto che la sfida di Sanders non era l’effimera battaglia di un vecchio idealista ma essa faceva via via sempre più proseliti, fino a costruire un vero e proprio movement.

Ma adesso che lo scontro interno è nella fase conclusiva e che s’avvicina il duello con Trump, Hillary potrebbe tornare alla vecchia linea clintonista, il centrismo “New Democrat” di Bill Clinton, che era soprattutto rivolto alla conquista dell’elettorato cosiddetto indipendente, e pezzi di elettorato moderato oscillante, che, in un sistema elettorale come quello americano, possono essere decisivi in quegli stati che in una competizione molto combattuta possono diventare l’ago della bilancia. Una scelta del genere si basa sull’ipotesi secondo la quale un blocco consistente di elettorato conservatore moderato non sia disposto a sostenere l’avventura di un estrremista imprevedibilissimo come Donald Trump e potrebbe votare per Hillary. In effetti si moltiplicano i segnali in quel senso, per adesso tra un certo numero di boss politici locali del Partito repubblicano, che detengono pacchetti di voti.

E l’elettorato più liberal? Diversamente dal 2008, quando Hillary rinunciò a giocare apertamente la carta della «prima presidente donna», questa volta la mette sul tavolo come la carta su cui punta. Anche nella logica secondo la quale, in uno scontro come quello che si prevede, con Trump politicamente scorrettissimo, senza freni, misogino, razzista e xenofobo, Hillary può catturare il voto di molti che oggi la considerano non votabile.

Calcolo molto rischioso, evidentemente. Il tatticismo potrebbe anche consentire a Hillary di battere Trump. Ma il mancato, perché non voluto davvero, coinvolgimento di Sanders e del suo movement preparerebbe inevitabilmente la strada alla creazione di una terza forza, che pur non presentando un proprio candidato a queste presidenziali, si consoliderebbe fino a diventare un partito – il partito di sinistra che finora non ha avuto modo di prender piede in America – proprio nel corso di un’amministrazione Clinton, e sarebbe la sua principale spina nel fianco.