Prima il tempio di Baal Shamin, poi l’atroce esecuzione dell’archeologo siriano Khaled Asaad. La furia dello Stato Islamico non si è ancora saziata. E domenica ha riecheggiato di nuovo tra le rovine del più affascinante sito archeologico siriano: Palmira è stata violata ancora.

Candelotti di dinamite hanno devastato  il tempio di Bel, il più noto simbolo della “sposa del deserto”, risalente al primo secolo d.C. e consacrato al dio Bel, il Giove partico. A riportare la notizia sono stati per primi i residenti di Tadmor, la città nuova nata intorno al sito: in piedi sarebbe rimasto solo un muro. Una perdita enorme non solo per la storia di Palmira, ma anche per la sua vita attuale: «Era il tempio più importante per i turisti e per la gente della città – ha detto al-Homsi, attivista intervistato dalla Bbc – Veniva usato per organizzare festival».

«Una distruzione totale – ha detto un altro residente di Palmira, Nasser al-Thaer, all’Ap – Le pietre e le colonne sono a terra. Un’esplosione che anche un sordo avrebbe potuto sentire». E mentre l’Unesco definisce il nuovo attacco l’ennesimo crimine contro l’umanità, in Siria si tenta di valutare la perdita. Secondo Maamoun Abdulkarim, capo del dipartimento delle Antichità, il tempio sarebbe ancora in piedi: «La struttura, le colonne e il santuario sono intatte» perché l’esplosivo sarebbe stato posto fuori e non all’interno, a differenza di quanto accaduto nel tempio di Baal Shamin. «Le informazioni [che possediamo] sono provvisorie ma mostrano che i danni subiti sono parziali e la struttura base è ancora in piedi».

Delle tante barbarie compiute dal sedicente califfato quelle contro i simboli della storia pre-islamica di Iraq e Siria stanno provocando lo sdegno delle opinioni pubbliche occidentali, che vivono come proprie le dissacrazioni contro simboli della storia dell’umanità. Le ragioni, però, che stanno dietro tale brutalità sono le stesse delle violenze fisiche contro le minoranze etniche e religiose nei due paesi, della raffinata e moderna propaganda manichea del califfo, della repressione di fedi religiose o politiche contrarie al suo pensiero unico.

L’obiettivo è la creazione di una società omologata che si regga su una sola identità, quella islamica (nella personale interpretazione dell’Islam dettata dal leader al-Baghdadi), cancellando ogni identità “avversaria”, a partire da quella araba. Una contrapposizione netta con l’ideologia panarabista che vedeva nell’estrema ricchezza etnica, storica e religiosa del mondo arabo un punto di unione. Palmira rappresenta l’incontro delle culture e per questo è nel mirino dell’Isis: una città millenaria, via di passaggio delle rotte commerciali tra Mediterraneo e Asia, incontro di popoli che hanno lasciato traccia di sé nei palazzi, i templi, i diversi stili architettonici. Ne era simbolo il tempio di Bel, nato come santuario e utilizzato nei secoli come fortezza, chiesa e infine moschea.

La preda non è l’Occidente, che troppo spesso legge nelle politiche e nelle azioni dello Stato Islamico minacce dirette contro la propria storia e cultura. Azioni di tale portata mediatica sono esca per futuri adepti, collante degli attuali e chiaro messaggio ai popoli iracheno e siriano. Sono la cassa di risonanza (e di propaganda, occulta e palese) dell’offensiva militare. Che non cessa: nel mirino c’è Damasco, simbolo chiave della Siria da distruggere.

Da domenica scontri sono in corso tra miliziani dell’Isis e gruppi ribelli rivali nei quartieri sud della capitale: a Qadam (dove ribelli e governo avevano siglato la tregua un anno fa) gli islamisti hanno occupato due strade. Dopo aver preso ad aprile parti del campo profughi palestinese di Yarmouk, l’eventuale occupazione di Qadam porterebbe l’Isis sempre più vicino al centro di Damasco. Una ventina di miliziani sono rimasti uccisi negli scontri, mentre sarebbero 4 le vittime civili (tra cui una bimba) del lancio di missili da parte di gruppi anti-Assad nel ricco quartiere di Abu Rummaneh, sede di hotel e ambasciate straniere.

Per ora le forze governative non intervengono, pronte a reagire – dice una fonte interna all’esercito – se l’Isis dovesse avvicinarsi a zone della capitale controllate dal governo.