La direttrice della collana «Cadre noir» la linea «gialla» di una delle più importanti case editrici francesi, “Le Seuil”, ha deciso di sospendere la pubblicazione dell’ultimo libro di Cesare Battisti già pronto per la stampa. A suo dire, dopo la confessione degli omicidi commessi dall’autore una quarantina di anni fa, mandare il romanzo di Battisti in libreria sarebbe in questo momento «indecente». Ora, se c’è qualcosa di «indecente» è che un direttore editoriale si arroghi il diritto di infliggere all’ergastolano una sorta di pena accessoria, essendo incomprensibile come un’opera di fiction, un brano musicale, o qualunque altra espressione artistica possa essere interpretata come apprezzamento assolutorio della biografia del suo autore. Ancora più indecente il fatto che, in previsione del probabile successo commerciale del libro, l’editore si sia comunque riservato la scelta di pubblicarlo tra qualche tempo.

La verità è che la crocifissione degli «intellettuali» che avevano difeso il latitante Cesare Battisti, giudicandolo un perseguitato, (che l’attuale accanimento lo sta facendo diventare davvero) ha seminato il panico. La confessione dell’omicida dei Pac, fino alla sua cattura sempre proclamatosi innocente, si è infatti rapidamente trasformata in un vessillo da sventolare nella più generale crociata contro «professoroni», «sapientoni» ed altri «gufi» intenti a confondere con tortuose argomentazioni le chiare idee del «popolo», mettendone in dubbio l’«autenticità». Per esempio sollevando obiezioni sull’amministrazione emergenziale della giustizia negli anni Settanta che inflisse lunghe carcerazioni preventive a centinaia di persone poi rivelatesi innocenti e sforzandosi di ricostruire il contesto storico dell’epoca. Che non vuol dire in alcun modo negare, minimizzare o addirittura giustificare l’omicidio, ma semmai restituirne i moventi.

Ma, alla fine, non è poi tanto il passato degli irripetibili «anni di piombo» che conta quanto le voci critiche che si levano contro le menzognere semplificazioni del presente. Tanto accanimento non si spiegherebbe altrimenti. La tradizione anti-intelletuale della destra è solida e ricorrente. Poggia sulla naturale propensione a evitare gli sforzi e a fare della propria esperienza immediata (liberata dalla memoria e dalla rappresentazione del futuro) il metro della verità. Esempio : «Sono stato derubato da uno zingaro, dunque tutti gli zingari sono ladri». Per non parlare della mitologia imbastita intorno all’inesistente «invasione» dei migranti. Non che la sinistra non abbia anch’essa la sua dottrina antintellettuale. Anche senza arrivare fino alla semplificazione sterminatrice di Pol Pot, la diffidenza verso il pensiero critico e l’imposizione della fedeltà all’ideologia, hanno mietuto numerose vittime. E anche in tempi più recenti l’autocelebrazione e l’allergia alla critica si sono fatte sentire distintamente.

Per fortuna la demistificazione del discorso dominante non è più affidata in prevalenza alla voce distinta e individuata dell’ «intellettuale impegnato». Non c’è bisogno di avere passato la vita sui libri o coltivato ardue discipline per rendersi conto che i migranti in Libia vengono rinchiusi in terrificanti campi di concentramento, che la «guardia costiera» di quel paese non è che una banda di predoni e trafficanti, che il cosiddetto reddito di cittadinanza è una umiliante irregimentazione della povertà, che è in corso un furibondo attacco contro la libertà delle donne. Esiste, infatti, una intelligenza collettiva, un fitto tessuto di relazioni e di scambi intento a disfare il quadro semplificato e «risolto» che il potere politico spaccia quotidianamente. Con la povertà argomentativa propria del linguaggio assertivo di twitter. A contrapporsi alla ferocia della banalità e al vuoto trionfalismo dei governanti è dunque un intellettuale collettivo, produttore di contenuti e di conoscenze, di pratiche politiche e di posizioni etiche. Forse non ancora maggioritario, ma certamente ben più esteso di qualsiasi rappresentanza.