Esiste un indicatore certo e indiscutibile che segnala il declino di un paese: la diminuzione della popolazione. A demografia stagnante o in calo corrisponde una economia stagnante o in regresso. L’Italia è oggi un caso da manuale. Se vivessimo in uno «stato stazionario», regolato da flussi di input e output in equilibrio, potremmo essere anche soddisfatti.

Ma poiché siamo ancora immersi in una economia-mondo capitalistica, dobbiamo preoccuparci. Anche perché non diminuisce solo e semplicemente la popolazione, quanto soprattutto e drammaticamente quella giovane.

È UN DECLINO di lungo periodo, che si è accentuato negli ultimi anni. All’inizio del ’900 oltre la metà dei cittadini italiani aveva meno di 25 anni, oggi sono meno del 24%. Nel 1996 i giovani fra i 20 e i 39 anni erano 17,3 milioni, nel 2015 erano crollati a 13,3 milioni: oltre 4 milioni in meno, come se in vent’anni fosse scomparsa l’intera popolazione del Piemonte, con tutta la sua potenzialità di ricchezza. È una tendenza destinata ad accentuarsi nel prossimo futuro, come riconoscono gli esperti delle Nazioni unite.

Un fenomeno del resto comprensibile, meno giovani significa sempre meno nascite, così che si innesta una «sindrome malthusiana» a rovescio, tanto più che in Italia le coppie fanno meno di un figlio e mezzo (1,32) contro, ad esempio, i due della Francia.
Ma non è tutto. Se i giovani diminuiscono i vecchi invece aumentano. L’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto tra la fascia di popolazione da 0 a 14 e da 65 in avanti, tra il 2009 e il 2019 è passato da 144,1 a 172,9. (Traggo questi dati da due saggi di Luigi Campiglio e Alessandro Rosina, apparsi su «Vita e Pensiero» 2019 n. 3 e n. 4).

QUEST’ULTIMO dato dovrebbe creare un deciso allarme. Mentre diminuisce il numero di chi produce ricchezza, aumenta quello di chi la consuma. Oggi la popolazione anziana in aumento è sempre meno autonoma e bisognosa di un concerto crescente di servizi (badanti, ricoveri ospedalieri, assistenza periodica, dialisi, trasfusioni, interventi chirurgici, innesto di protesi, ecc) e di medicinali sempre più costosi.

La sua sopravvivenza assorbe, di anno in anno, costi crescenti del bilancio pubblico, anche in virtù dell’incessante progresso della tecnologia medica. Un tempo per ogni anziano da assistere lavoravano decine di giovani, oggi il rapporto si è ridotto a due-tre per ogni pensionato.

Ora noi conosciamo le cause di tale squilibrio. Disoccupazione giovanile protratta, scarsi investimenti, anche in ricerca e istruzione, assenza di servizi (asili nidi, scuole materne, presidi sanitari), mancanza di agevolazioni e incentivi alle coppie giovani, marginalità delle donne, ecc.

A cui occorre aggiungere, specie per il Mezzogiorno, l’emigrazione all’estero dei giovani, ripresa in grande stile negli ultimi anni. Dunque, è auspicabile che il governo si applichi con serietà per promuovere un nuova politica verso la nostra gioventù.

MA PUÒ BASTARE? In termini di costituzione di forza-lavoro ci vorranno almeno vent’anni perché queste politiche possano in qualche modo aggiustare il presente squilibrio.

Eppure noi abbiamo di fronte l’unica, grande, rapida soluzione a questo grandioso problema e non solo non vogliamo vederla, ma la condanniamo come l’introduzione di una epidemia di peste. La soluzione è l’immigrazione, l’ingresso di centinaia di migliaia di giovani che scappano da situazioni disperate, guerre, distruzioni, schiavitù e fame, che solo con gli anni (e con una prolungata politica di pace, che non è alle viste) può essere normalizzata nel luoghi d’origine.

MA QUESTI GIOVANI africani o mediorientali non vanno solo salvati e accolti, vanno anche ospitati. Quando arrivano sulle nostre terre essi vanno conosciuti intanto come essere umani, e non come stranieri clandestini, occorre apprendere dalla loro voce da dove vengono, che studi hanno fatto, che mestiere posseggono, per poter progettare un loro inserimento dignitoso nella nostra società.

Naturalmente per fare questo ci vogliono specifici investimenti e sforzo organizzativo. Non si può operare come è accaduto sinora, lasciando questo esercito di sbandati a bivaccare nelle nostre periferiferie, ad accrescere il loro degrado in danno dei cittadini più poveri, generando la sensazione di disagio e insicurezza su cui è prosperata la politica della paura. Occorre credere nella loro capacità di lavoro, nella loro intelligenza, nella loro cultura e umanità.

DUNQUE BISOGNA rovesciare radicalmente la narrazione xenofoba su cui la Lega ha fondato le sue fortune. I dirigenti sindacali della Cgil, i cui scritti votano per il partito di Salvini, possono raccontare loro, con serenità, che se vince la sua politica i loro figli non avranno più la pensione e loro stessi avranno sempre più difficoltà ad accedere alla sanità pubblica. È necessario dunque raccontare al paese intero un’altra storia, la verità storica.

La politica del «prima gli italiani» ha operato in danno degli italiani stessi, ha lavorato per accrescere il grave squilibrio demografico che trascina l’Italia verso il declino, erodendo drammaticamente le basi economiche su cui si regge il nostro welfare e quello delle prossime generazioni.