A marzo scorso su queste pagine analisti yemeniti prospettavano con preoccupazione la frammentazione dello Yemen a seguito dell’intervento saudita. Oggi, a 5 mesi di distanza, migliaia di yemeniti del sud sono scesi per le strade della città costiera di Aden per chiedere la secessione.

La guerra per procura scatenata da Riyadh contro l’Iran ha risvegliato i movimenti secessionisti del sud, schieratisi al fianco della coalizione anti-Houthi e del governo ufficiale in auto-esilio all’estero. Ora, dopo aver fornito il sostegno necessario a ripulire Aden dalla presenza dei ribelli sciiti, chiedono la loro parte: la creazione di uno Stato a parte. Un salto di 25 anni nel passato, quando di Yemen ce n’erano due.

«Spingere i meridionali nella guerra a nord cementerebbe l’unità dello Yemen, che noi rigettiamo», diceva un cartellone ieri in piazza al-Arood, dove la protesta ha avuto luogo. I gruppi armati meridionali non intendono proseguire il conflitto con gli Houthi, che mantengono più o meno stabili le posizioni a nord.

Il sud è appetitoso: la zona più ricca di petrolio dello Yemen, dove a dettare legge sono le tribù più che lo Stato, è oggi preda anche di al Qaeda nella Penisola Arabica. Come i secessionisti, ha combattuto indirettamente al fianco del governo in esilio, dispiegando suoi uomini per le strade di Aden a luglio, durante la ripresa della città. E dopo aver assunto il controllo della storica provincia di Hadramaut e aver creato una sua amministrazione locale in comune con i poteri tribali, ha ampliato la sua presenza: mercoledì i qaedisti hanno occupato gli uffici governativi a Zinjibar, capoluogo della provincia di Abyan, confinante con Aden.

Cinque mesi di bombardamenti a tappeto, massacri (4.900 vittime, di cui oltre la metà civili), distruzione del patrimonio del paese e delle sue infrastrutture non hanno garantito all’Arabia saudita la vittoria. La guerra non finisce, nonostante gli sforzi – troppo deboli – delle Nazioni Unite: ieri il vice segretario generale Onu, Jan Eliasson, ha parlato di un nuovo negoziato alla fine di ottobre e chiesto ad entrambe le parti – governo e movimento Houthi – di prendervi parte.

Sforzi deboli perché inutili: una settimana fa la leadership Houthi, dopo aver perso il controllo di 5 province meridionali, si era detta pronta a negoziare e ad accettare la risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza Onu, ovvero il ritiro dalle zone occupate dal settembre 2014 e l’abbandono delle armi. Gli Houthi volevano di fatto arrendersi: la risoluzione 2216, mai accettata prima dal movimento ribelle, è sempre stata posta come precondizione al dialogo dal presidente Hadi, messo sulla poltrona dall’Arabia Saudita per soffocare le proteste di piazza del 2011.

Alla resa degli Houthi, Hadi ha però risposto con un “no, grazie”, giustificandosi con una non specificata sfiducia nelle promesse dei ribelli. L’ennesima umiliziane per l’Onu, aleatorio sponsor di un dialogo che il governo non vuole perché non lo vogliono i sauditi. Riyadh non intende trattare con i ribelli (la cui protesta nacque un anno fa dalla richiesta di maggiore inclusione politica) perché ciò significherebbe la nascita di un governo di unità nazionale o di un esecutivo che al suo interno comprenda anche una significativa rappresentanza sciita.

E il timore di re Salman è quello di perdere il totale controllo dello Yemen, doverlo “spartire” con il nemico Iran, dover condividere lo strategico stretto di Bab al-Mandeb, bocca verso Suez e quindi verso il mercato europeo a cui un Iran riabilitato dall’accordo sul nucleare ora sta puntando.