I Per capire la rabbia di lavoratori e artisti dello spettacolo che in questi giorni hanno partecipato alle proteste esplose in tutta Italia, basta consultare studi e documenti degli anni scorsi e si scopre facilmente che il Covid s’è abbattuto su un settore mal governato, basato su una estrema frammentazione del lavoro, privo di reali tutele e diritti per la gran parte dei lavoratori.

Un settore che fa fatica ad aprirsi a nuove esperienze produttive e distributive, caratterizzato da ingiustizie sul piano dei diritti del lavoro e della libertà espressiva, non può pretendere di realizzare innovazione né grandi idee sul futuro. Queste debolezze non sono figlie dalla pandemia, diciamocelo.

Le proteste di piazza pare siano dominate dalla estrema destra, ma ciò non basta per capire da cosa siano generate e non basta per scusare la «sinistra politica» per aver ancora una volta abbandonato pezzi di società al loro destino.

Chi governa ha poi il dovere di capire perché la rabbia tracima e invade le strade, non bastano le veline dei Servizi per spiegare tutto. E non basta ripetere il mantra «non ci saranno nuovi Lockdown» perché se poi lo praticano francesi e tedeschi lo rischiamo anche noi, non avendo tra l’altro analoghi servizi.

Detto ciò chi invece svolge un ruolo intellettuale deve aiutarci a capire certe dinamiche, non può limitarsi a strillare cose sconnesse come l’evocazione di un ruolo «salvifico» della cultura, che è una posizione irrazionale, o amenità come «la cultura è un bene primario».

La cultura è un «processo» che esiste nella società e fa parte dei comportamenti degli individui e dei gruppi sociali NEL BENE COME NEL MALE. Non è necessario conoscere Leroi-Gourhan o Lévi-Strauss e nemmeno Carletto Marx per saperlo. Basta non vivere in un mondo separato e considerare la socialità che si sviluppa in un bar o allo stadio importante (ripeto nel bene come nel male) quanto quella che si sviluppa in ambiti più esclusivi.

Ma qual è la condizione di chi lavora nel meraviglioso mondo dello spettacolo? C’è una resistenza passiva all’argomento stesso, uno strano pudore che finisce per assimilare il lavoro creativo a pratiche «imbarazzanti» come la prostituzione, una cosa di cui si deve parlare un po’ sottovoce perché non sta tanto bene.

Ci sono prove certe di questa curiosa tendenza, per esempio nel 2017 passò quasi sotto silenzio una meritoria ricerca della Fondazione Di Vittorio intitolata «Vita d’artisti» che andò avanti per un po’ di tempo e fu presentata anche in Senato nel 2019.

Da questa ricerca emersero chiaramente dati che ci aiutano a capire chi sono, quanto guadagnano, dove vivono questi strani esseri, i «lavoratori dello spettacolo», cioè attori, danzatori, musicisti, sceneggiatori, registi, cantanti.

Si concentrano nelle grandi città (Roma 30%, Milano 12%, Torino 7%, Napoli 5%). Il 94% circa delle persone che parteciparono all’indagine dichiararono di accettare qualunque condizione di lavoro proposta.

Susanna Camusso sostenne una cosa sacrosanta: «Piuttosto che una indennità di disoccupazione, ci sarebbe bisogno di una indennità di continuità perché questo tipo di lavoro si esercita anche quando non si è sul palco ma si prepara, si studia, si lavora per andare su quel palco».

Ecco il punto, quello dei lavoratori dello spettacolo è un lavoro invece considerato, molto spesso dagli stessi artisti, un non-lavoro. Dalla inchiesta risultarono parametri molto significativi, per esempio il 75% dei lavoratori dello spettacolo dal vivo in Italia sono giovani e ha meno di 45 anni, sono pagati pochissimo, la media della retribuzione annua è 5.000 euro e non hanno praticamente tutele perché l’80% ha contratti temporanei, solo il 17% è iscritto al sindacato.

5.000 euro di media è lo stipendio di 150.000 persone che lavorano nello spettacolo, va da sé che la gran parte non viene remunerata. Durante lo scorso Lockdown ci furono molte proteste perché persino le pubbliche amministrazioni chiamavano gli artisti a fare spettacoli o covid-testimonianze senza considerare nemmeno rimborsi spese.

Gli impresari teatrali interruppero i contratti il giorno stesso della promulgazione del Dcpm che chiuse il paese e maestranze, attori, sceneggiatori e registi rimasero col cerino in mano. Per fortuna anche grazie alla prolungata e dolorosa inattività in primavera sono nate associazioni come UNITA che hanno deciso di unire le forze e fare azioni coordinate.

Rispettando criteri sanitari non dobbiamo fermarci dinanzi alla pandemia, io ne sono convinto, né sul fronte della lotta per i diritti né sul fronte creativo, bisogna sperimentare, lottare, restare in contatto.

Non fermarsi non vuol dire negare l’evidenza degli effetti di una pandemia che cambia le nostre abitudini, le nostre stesse aspettative di vita, vuol dire non soccombere e trovare vie nuove.

In questo frangente la «Cultura» rischia di essere parte della «conservazione» se non sviluppa nuovi modelli di pensiero e se non trova nuove vie per l’espressione di idee oltre che per la ricerca artistica.

Se non contribuiamo a costruire il futuro i nostri figli ci sputeranno in faccia e faranno bene, nessuno ricorderà le nostre frustrazioni per il nostro film non uscito in sala o per lo spettacolo interrotto. Lavoriamo, studiamo, sperimentiamo, lamentarsi serve a poco purtroppo e rischia di dare ragione a chi ci dice: «non avete capito quale pericolo abbiamo di fronte».

Quella frase di André Gide della quale in tempi «normali» ci riempiamo la bocca per sentirci eroi vessati dal potere, cioè «l’arte nasce dalla costrizione e muore di libertà», forse ha senso non sciuparla e tenerla presente come insegnamento, indicazione, proprio in momenti come quello che stiamo vivendo.