Per la terza volta nell’arco di tre anni il governo ha prolungato l’età per il collocamento in pensione dei magistrati. Questa volta – salvo modifiche in sede di conversione in legge del relativo decreto – la proroga riguarda solo i vertici delle magistrature e, in particolare, della Corte di cassazione i cui titolari, ove non abbiano compiuto i 72 anni nel corso del 2016, potranno restare in servizio sino al 31 dicembre 2017.

Di nuovo, dunque, il presidente del consiglio – ché a lui questa decisione si deve – si rivela incapace di dare effettivo seguito alla scelta, annunciata con squilli di tromba nel 2014, di portare a 70 anni la fine della attività lavorativa di giudici e pubblici ministeri.

E, di nuovo, ciò apre un conflitto tra governo e magistrati, che lamentano la disparità di trattamento tra i vertici della Cassazione e gli altri ruoli e, in talune componenti, si spingono a minacciare uno sciopero.

[do action=”citazione”]Ma c’è, nella vicenda, qualcosa in più del pressapochismo governativo e del corporativismo dell’Associazione nazionale magistrati.[/do]

Si tratta di un’ulteriore tappa nella definizione di un rapporto opaco e istituzionalmente scorretto tra governo e magistratura (o, almeno, alcune sue componenti).

Conviene riassumere i fatti.

L’ordinamento giudiziario prevedeva, sin dal 1946, il collocamento in pensione dei magistrati al compimento del settantesimo anno. La norma è rimasta ferma sino al 1992 quando, all’esito di una serie di (contradditori) decreti legge, si pervenne – guardasigilli Martelli – a prevedere la possibilità, presto diventata regola, di trattenimento in servizio fino a 72 anni.

Dieci anni dopo poi, nel 2002, regnante Berlusconi, tale termine venne elevato a 75 anni.

Infine, nel 2014, il governo Renzi dispose il ritorno alla situazione originaria (pensionamento a 70 anni). La scelta, opportuna e condivisibile, non venne peraltro accompagnata, per un mix di incapacità e presunzione, da un piano di attuazione graduale con conseguenti improvvisi e contestuali vuoti di organico di difficile gestione.

Ne sono seguite, nel 2014 e nel 2015, due proroghe di un anno e, oggi, una terza proroga, con incertezze interpretative, confusioni, disparità di trattamento tra magistrati, ricorsi amministrativi e quant’altro.

Tutti questi provvedimenti – il prolungamento dell’età pensionabile come la sua riduzione e le successive proroghe – sono stati motivati con esigenze di servizio che vanno dalla difficoltà di coprire altrimenti vuoti di organico fino alla opportunità di favorire un ricambio e un ringiovanimento del corpo giudiziario. In realtà, i continui cambiamenti non hanno in alcun modo risolto i problemi evocati e hanno, al contrario, aumentato l’incertezza e l’improvvisazione. Ma, soprattutto, hanno portato significative ferite all’indipendenza della magistratura o, almeno, alla sua immagine.

Ogni cambiamento ha infatti un «nome»: la modifica del 1992 quello del procuratore della Repubblica di Roma, Ugo Giudiceandrea, mantenuto in servizio – si disse – perché ritenuto, dopo l’archiviazione del «caso Gladio» che aveva coinvolto il presidente della Repubblica Cossiga, più affidabile del possibile successore; la modifica del 2002 quello dell’allora presidente della Corte di cassazione Nicola Marvulli, prorogato nella speranza (rivelatasi infondata) di suoi interventi favorevoli al presidente del consiglio Berlusconi in dibattimenti pendenti davanti alla Suprema Corte, a cominciare dal «processo Mills»; la modifica odierna quello dell’attuale presidente della Suprema Corte Gianni Canzio (nominato grazie alla precedente proroga), da taluno ritenuto più di altri sensibile alle «compatibilità» politiche a seguito di discusse esternazioni (come quella, resa in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario milanese del 2015 a commento della vicenda della audizione del presidente della Repubblica Napolitano da parte del Tribunale di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia, secondo cui: «È mia ferma e personale opinione che questa dura prova si poteva risparmiare al capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica Italiana»).

Illazioni infondate dovute allo scandalismo o alla ricerca di scoop di questo o quel giornale? È probabile. Ma resta il fatto che, esse sì, avrebbero potuto essere evitate a beneficio di istituzioni che non hanno certo bisogno di ulteriori delegittimazioni e sospetti.

Gli automatismi – quelli del trattamento economico come quelli relativi alla permanenza in servizio – sono, prima di tutto, garanzie di indipendenza dei magistrati dal governo e dal potere politico.

Come recita un antico detto, le funzioni giudiziarie devono essere esercitate, almeno da parte di chi lo vuole, «sine spe ac metu», cioè senza speranze di benefici o timore di ritorsioni in conseguenza delle proprie decisioni.

Anche questo vale a rendere credibili i magistrati di fronte all’opinione pubblica. E non giova il dubbio, alimentato dall’ingiustificata riduzione di quegli automatismi, che talune nomine o proroghe siano (o siano state) oggetto di contrattazioni o di richieste col «cappello in mano».