«La giustizia emana dal popolo, ed è amministrata nel nome del Re da parte di giudici indipendenti, inamovibili, responsabili e soggetti soltanto alla legge»: questo afferma la Costituzione spagnola. Se sia davvero così è questione da sempre dibattuta nel Paese iberico. L’avvento della democrazia nel biennio 1977/78 non portò con sé alcuna defascistizzazione della magistratura, in buona parte composta da franchisti, e uno dei principali campi di intervento del Psoe giunto al potere nel 1982 fu proprio quello dei tribunali da adeguare ai tempi nuovi. La strada che i socialisti scelsero su iniziativa del guardasigilli Fernando Ledesma, uno dei fondatori di Jueces para la democracia (la Magistratura democratica spagnola), fu netta ma non priva di rischi: cambiarono il metodo di elezione dell’organo di autogoverno, chiamato Consejo general del poder judicial, (il nostro Csm), rendendolo tutto di nomina parlamentare.

Il risultato fu che nel periodo di maggioranza del Psoe, fino al 1996, il Consejo fu decisamente più a sinistra di quanto non fosse il corpo dei giudici spagnoli, permettendo alle (non molte) toghe progressiste di acquisire posizioni di rilievo. Controindicazione: da allora, i giudici che vogliono essere eletti al Csm non devono avere il consenso dei colleghi, ma dei politici. A quarant’anni dalla fine della dittatura, di giudici che abbiano iniziato la carriera sotto il franchismo non ce n’è più, ma i magistrati conservatori continuano ad essere la maggioranza, organizzati nella corrente Asociación profesional de la magistradura (equivalente all’italiana Magistratura indipendente). E quando al potere c’è il Pp, l’organo di «autogoverno» delle toghe pende inevitabilmente verso destra, con le conseguenze facilmente prevedibili: fanno «carriera» soprattutto i giudici affini a quel partito.

Il Consejo delle toghe si presenta quindi come un vero e proprio parlamento, ma in senso negativo: è stabilmente diviso fra una maggioranza e una minoranza, spesso duramente contrapposte, e ciascun suo membro porta con sé l’etichetta di conservatore o di progressista. Che altro non sono che eufemismi utilizzati nel dibattito pubblico e giornalistico per non dire apertamente «del Pp o del Psoe».

L’affiliazione a partiti è formalmente vietata, ma le porte girevoli fra politica e giustizia funzionano in modo permanente: attualmente sono magistrati, ad esempio, il ministro dell’interno Juan Ignacio Zoido e la capogruppo parlamentare del partito socialista, Margarita Robles. Anche Podemos ha avuto, nella legislatura-lampo precedente all’attuale, una toga nelle proprie file, Victoria Rosell.

Dalla carriera dei giudici è separata quella dei pubblici ministeri, organizzati gerarchicamente in una struttura al cui vertice si trova il Fiscal General del Estado, il Procuratore generale dello Stato, nominato dal governo. I singoli procuratori accedono per concorso (è uguale a quello per giudice, poi chi vince deve scegliere), il loro compito è «la promozione dell’azione della giustizia» e nei processi sostengono l’accusa. Nella vicenda giudiziaria che vede agli arresti i leader indipendentisti catalani, l’innesco si deve al procuratore generale Juan Manuel Maza, «ovviamente» affine all’esecutivo che lo ha nominato. In quanto giuristi, i fiscales possono essere eletti nel Csm dei giudici, nella quota di un terzo riservata agli esperti di diritto che non indossano la toga (quelli che in Italia sono chiamati «membri laici»).

La Corte costituzionale non fa parte in senso stretto del sistema giudiziario, ma può intervenire nei processi come ultima istanza in caso di violazione di diritti fondamentali, sulla base di un tipo di ricorso eccezionale non previsto dal nostro ordinamento (recurso de amparo). Esaurita anche quella strada, chi subisce una condanna che ritiene ingiusta può, come ogni europeo, ricorrere alla Corte dei diritti umani di Strasburgo.