Il 30 novembre 1939 Stalin aggredì la Finlandia neutrale, approfittando dell’alleanza temporanea con Hitler, sancita dal patto Ribbentrop-Molotov che, nei mesi precedenti, costituì la premessa per l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Scopo di Stalin era quello di trasformare la Finlandia in uno stato vassallo, presieduto dal presidente del partito comunista finlandese, allora di fede sovietica, di nome Otto Kuusinen.

Tuttavia, la straordinaria difesa finlandese – che utilizzò a suo favore quel “generale inverno” che aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone e, in un non lontano futuro, a quella di Hitler e di Mussolini -, insieme con la solidarietà soprattutto della vicina, socialdemocratica e pure neutrale Svezia, costrinse Stalin ad accettare una pace di compromesso. La Finlandia rimase neutrale ed indipendente, Otto Kuusinen dovette emigrare a Mosca, e Stalin accontentarsi di una piccola parte dei territori finlandesi, per poi dedicarsi alla conquista dei paesi baltici come beneficio del patto di non aggressione con Hitler, a sua volta impegnato a conquistare la Polonia.

DAL PUNTA DI VISTA umano quell’aggressione, dimenticata nelle pieghe della Seconda guerra mondiale, era costata circa 200.000 morti, dei quali la maggioranza di nazionalità sovietica.

Dopo circa quattro mesi di guerra, prevalse la parola d’ordine, lanciata dalla vicina Svezia: “Finlands sak aer, la causa della Finlandia è nostra”. Di fronte ad un’altra guerra d’aggressione, a ottant’anni di distanza, non possiamo che dichiarare il nostro orrore per le vittime di qualsiasi guerra: oggi, innanzitutto civili, migranti ucraini in fuga, anche reclute russe. Le devastazioni causate da Putin ci stanno aprendo gli occhi con molto ritardo anche a quelle vittime invece nascoste, che tuttora crescono nello Yemen e che, a centinaia di migliaia, sono state causate da interventi militari, in violazione di ogni norma internazionale – le così dette “coalitions of the willing“, coalizioni dei volonterosi, guidate dagli Stati Uniti – in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, di cui anche noi siamo stati partecipi comprimari e/o fornitori di armi.

NELLO STESSO TEMPO non possiamo non fare nostra quella ormai defunta parola d’ordine, ispirata dalla volontà di un popolo che, a grande maggioranza, rifiuta di sottomettersi all’aggressore, rinunciando alla propria indipendenza: in quanto europei, la causa dell’Ucraina è la nostra. Perché l’Ucraina è parte dell’Europa, attaccata anche in quanto tale. Non sfugga il fatto che la Russia di Putin, con la propria aggressione, ha riesumato la divisione dell’Europa che ha caratterizzato la Guerra fredda, nel non abbastanza breve secolo scorso.

Come non può sfuggirci il fatto che quanto sta avvenendo in Ucraina restituisce alla Nato una funzione che aveva perso con la caduta del Muro, restaurando, almeno in questa fase, un principio gerarchico, fondato su una presenza militare statunitense, anche nucleare, su territorio europeo che, più ancora che in passato (ricordate il principio della doppia chiave?), sfugge al controllo degli Stati – in primis il nostro – che la ospitano. Come constata una prima pagina del New York Times (cfr. 14 marzo, p.1): “La guerra in Ucraina ha sollecitato la più grande revisione della politica estera americana…infondendo agli Stati uniti un nuovo senso di missione e mutando i suoi calcoli strategici nei rapporti con i propri alleati ed avversari”.

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COME SPIEGA Alessandro Portelli, (il manifesto, 16 marzo), denunciare la graduale espansione della Nato, fino ai confini della Russia, non è per giustificare la politica di Putin, bensì, al contrario, per imputargli un ulteriore forma di aggressione nei nostri confronti, nel tentativo, per ora riuscito, di reinstaurare un bipolarismo, ad un tempo pericoloso e connivente, che riduce l’Europa a terreno di conflitti e di conquista di soggetti militarmente più forti – oggi Russia e Stati Uniti, in prospettiva la Cina – e priva mezzo miliardo di persone di una voce a livello globale.

PER CONTRIBUIRE A FAR cessare lo scempio in atto di vite umane, l’Europa deve trovare la sua unità politica e prospettiva strategica, ancora pochissimo presente nei consessi di Bruxelles, nella formulazione di un programma di pace che salvaguardi e accolga i fuggiaschi da questa e da ogni guerra, ripartendone equamente l’onere, senza distinzione di provenienza e di colore della pelle; che riconosca la pronta adesione dell’Ucraina all’Unione europea, preservandone l’indipendenza e la neutralità simile ad altri stati membri – opponendosi alle sintomatiche pressioni per l’adesione anche della Svezia e della Finlandia alla Nato, non a caso incoraggiate da provocazioni di Mosca nei loro confronti -, riconoscendo a quella parte dell’Ucraina a prevalente vocazione e lingua russa diritto di autodeterminazione. D’ora in poi chi pone al primo posto la ricerca della pace dovrebbe ricordare il monito del cardinale Martini, secondo cui è necessario rinunci ad una parte di ciò che ritiene giusto.

Mosca accentuerebbe il proprio isolamento sancito dall’Assemblea Generale dell’Onu, spingendosi oltre le pretese a suo tempo definite da Stalin a conclusione della propria aggressione alla Finlandia, né aiuta una soluzione pacifica del conflitto in atto la definizione di Vladimir Putin quale criminale di guerra da parte del presidente degli Stati Uniti. La sede naturale per la ricerca di una soluzione pacifica ed un ritorno alla legalità internazionale resta quella dell’Onu (cfr. Luigi Ferrajoli, il manifesto, 16 marzo) ove l’orientamento multipolare della Cina potrebbe risultare determinante.

QUANTO ALLA RIVENDICAZIONE di diritti e libertà umane, esse risultano assai più credibili nella bocca di coloro che protestano e subiscono conseguenti repressioni in Russia che non in quelle dei nostri governanti occidentali. Si riconosca il valore etico e politico della resistenza ucraina, senza aggiungere guerra alla guerra, armi alle armi, con riferimenti impropri a quella, ad esempio italiana, che si sviluppò militarmente contro un esercito nazista ormai in fuga. Piuttosto, si valuti forme di presenza e testimonianza solidale, da parte di governanti, parlamentari e volontari europei, in un teatro ancora di guerra, come prontamente suggerito da Alex Zanotelli ed altre persone impegnate per la pace.