La faccia è scavata e la voce quasi stenta ad uscirgli, in testa il solito capello da ufficiale degli stati confederati d’America. Ian Kilmister, detto Lemmy, lo scorso 20 novembre stava già molto male. Ma non così tanto da impedirgli di apparire in tv in Germania e sbottare contro gli eventi terroristici di Parigi della settimana precedente.

 

 

Quando gli chiedono un commento, Lemmy si supera e diventa splendidamente perentorio: «Che si fottano, a loro non piace il rock’n’roll e a me non piacciono loro». Una di quelle frasi già pronte per le t-shirt del futuro, di quelle che raccontano bene la storia e la vita del musicista. Perché il bassista, cantante e leader dei Motörhead per il rock’n’roll non si è mai fermato, ha continuato a stare sul palco nonostante acciacchi di vario genere, inclusi ipertensione, diabete, defibrillatore. Capitava che durante i concerti si fermasse e terminasse lo show perché «non ce la faccio» (a Austin lo scorso gennaio), ma poi l’infezione ai polmoni spariva e lui ricominciava.
A settan’anni, vissuti alla sua maniera, era il minimo. Raccontava che non voleva «fare la vita del rocker senza la musica, e fare musica senza la vita del rocker», e da qui tutto scaturiva: una vita vissuta letteralmente al massimo, tra abusi di ogni genere e contorsioni esistenziali variegate. Poi negli anni Novanta i medici gli avevano chiesto di rallentare, almeno con le droghe. Il resto, alcol e nicotina, continuava a caratterizzare il mondo di Lemmy. Perché lo fai, gli chiese un giornalista del «Guardian», e lui: «È pura insolenza, alla faccia di chi continua a chiedermelo».

 

 

Fin qui tutti gli stereotipi del rock vissuti sulla propria pelle, il vizioso, il tossico, il debosciato, il biker, l’erotomane, da qui in poi Lemmy, il grande versificatore, l’artista appassionato di storia contemporanea con cui riuscivi ad intrattenerti anche per ore. Aveva solo un unico neo: era un appassionato di cimeli della seconda guerra mondiale e in particolare di abiti e altra paccottiglia del Terzo Reich.

 

 

La sua casa di Hollywood era colma di uniformi, medaglie e medagliette. Ai visitatori che sgranavano gli occhi ripeteva: «Alla mia ragazza afro-americana mica danno fastidio, perché dovrebbero darne a te». E poi: «Il fatto che collezioni tutta questa memorabilia nazista non significa che sia un fascista o uno skinhead, è che mi piacciono questi vestiti, mi è sempre piaciuta una bella unifirme e nella storia solo i cattivi si sono vestiti meglio: Napoleone, i confederati, i nazisti».
Tarantino avrebbe apprezzato molto. Lemmy era così estremo, semplice e complicato, spietato e unico alla stesso tempo. A chi gli chiedeva se il muro di suono dei Motörhead fosse più punk o metal lui ripeteva che era solo rock’n’roll ed era vero. C’è molto Little Richard in quella vertigine di note affogate nel rumore e nella velocità, c’è Chuck Berry, ci sono i Beatles e gli Everly Brothers. E poi c’è la sua voce cavernosa, il tratto distintivo di canzoni che sapevi come iniziavano e anche come finivano, sorrette da un basso distorto che Lemmy martellava come se avesse in mano una chitarra ritmica.
I testi non erano affatto solo donne e rock’n’roll, in Don’t Let Daddy Kiss Me si scagliava contro chi abusa dei minori, in Get Back in Line evidenziava l’inutilità della guerra, lui che di robe belliche andava ghiotto. Chi scrive lo incontrò a Bologna anni fa, eravamo nel backstage e giorni prima il settimanale inglese «Sounds» lo aveva intervistato raccontando di come i Motörhead prima di salire sul palco cercavano di allentare la tensione prendendosi a botte. Chiesi se fosse vero e Lemmy: «Proviamo?», panico e giù una risata.

 

 

Sembrava uno strano gigante arrivato chissà da quale era del passato, che aveva attraversato mondi e suoni. Dalla psichedelia dei Sam Gopal al rock cosmico degli Hawkwind al mostro Motörhead (il nome deriva da una canzone che aveva scritto per gli Hawkwind) che aveva fondato nel ’75.

 

 

Da lì un susseguirsi di pezzi e album che hanno fatto la storia del gruppo, in particolare con il trio storico, quello con il batterista Phil «Philty Animal» Taylor e il chitarrista «Fast» Eddie Clarke. Titoli come Overkill, Bomber, Ace of Spades, Iron Fist e No Sleep ‘til Hammersmith, l’incredibile e ultraviolento live dell’81 il cui titolo è entrato nel gergo inglese per indicare che non si dorme finché non si arriva a fare qualcosa. Di disco in disco la ricetta di Lemmy sempre la stessa: «Perché io amo il rock’n’roll, soddisfa la mia anima» (dal brano Rock ‘n’ Roll).