Questa vittoria ha un padre. Che ha 40 anni, è dal 2013 presidente di Syriza e si chiama Alexis Tsipras. E’ una vittoria tutta sua, della sua abilità, la sua costanza, il suo intuito politico. Non è un omaggio al culto della personalità, è la registrazione di una storia vera, con lieto fine.

Fino alle elezioni del 2012 Syriza era semplicemente quello che diceva di essere: una coalizione di varie forze della sinistra radicale greca.

Il suo maggiore successo era quello di esistere: di mantenere cioè unite forze di una sinistra famosa per la sua tendenza alla rissosità e alla frammentazione. Il discorso politico di Syriza era semplice, spesso elementare, con punte massimaliste. Se sei destinato all’opposizione per l’eternità te lo puoi permettere.

Nel 2012 la scena politica è cambiata rapidamente. Già prima delle doppie elezioni di maggio e giugno era evidente la disgregazione dell’area di centro sinistra: il partito socialista Pasok radiava deputati dissidenti, perdeva quadri sindacali e organizzazioni giovanili. Ne ha aprofittato Evangelos Venizelos per fare lo sgambetto a George Papandeou, nell’illusione che il Pasok avrebbe continuato a essere quello che era stato per un quarantennio, un pilastro essenziale del sistema politico.

È stato crudelmente smentito. Ma quest’ opera di contrasto sistematico dell’opera di ricompattazione dell’area di centrosinistra è l’intuzione importante di Tsipras, all’epoca semplice presidente del gruppo parlamentare. Forzando le sue competenze, il giovane leader ha aperto le porte alla collaborazione con i profughi del Pasok. Il messaggio lanciato era semplice: il vostro dissenso verso l’austerità può trovare forza solo sotto il tetto della Sinistra Radicale.

I risultati si sono visti alle doppie elezioni di quell’anno: l’apertura verso i socialisti ha fatto in modo che la grande massa degli elettori del Pasok accogliesse l’invito. Syriza ottenne allora un importante 27%, poi confermato alle elezioni europee dell’anno scorso. Un nucleo forte del 27% indifferente a qualsiasi minaccia, fedele alla Sinistra radicale qualsiasi cosa succedesse.

Ottenuti – per merito di Tsipras – gli elettori, bisognava attrezzare Syriza a venire incontro alle loro esigenze e aspettative. La parola d’ordine con cui aveva affrontato le elezioni del 2012 era «nessun sacrificio per l’euro». Malgrado il forte orientamento europeista del partito, non si escludeva la possibilità di un’uscita dall’eurozona nel caso di uno scontro all’ultimo sangue con Bruxelles. Un errore di cui ne hanno approfittato gli avversari, come hanno ampiamente approfittato della diversità di posizioni che venivano espresse nel dibattito preelettorale.

All’indomani di quelle elezioni Tsipras è stato il primo a intuire la necessità di passare dalle aperture verso i socialisti a un percorso profondo di trasformazione del discorso politico di Syriza. Abbandonare le facilonerie del passato per arrivare a una proposta politica responsabile, misurata, degna di una sinistra pronta a governare e a dare soluzione alla grave crisi del paese.

È questo il dibattito del congresso del 2013, che ha trasformato Syriza da aggregato di «componenti» (in pratica piccoli partiti con una propria struttura organizzativa) in partito unitario con varie correnti interne.

Non tutti hanno seguito Tsipras. Le resistenze sono state forti e solo la sua capacità di mediazione ha evitato fratture traumatiche. L’opposizione di sinistra, capitanata da Panayotis Lafazanis, si è concentrata sulla necessità di preparare in tempo un «piano B» nel caso di rottura con Bruxelles.

Ma non è questo che ha preoccupato Tsipras negli ultimi due anni. Lo scontro interno era più profondo e riguardava l’essenza stessa di Syriza. Ne ho parlato a lungo con lui l’anno scorso, poco dopo le elezioni europee: c’è un numero non indifferente di militanti che non vede di buon occhio l’espansione di Syriza, l’ingresso di nuovi linguaggi e di nuove mentalità.

Estremizzando, avrebbero preferito rimanere al 4,5% del 2009. E per questo hanno chiuso ermeticamente le porte del partito a nuovi iscritti. Il risultato è paradossale: il partito più grande della Grecia, con qualche milione di elettori, si ritrova ad avere solo 30 mila militanti.

E’ questo l’avversario con cui si è battuto Tsipras. Aprire il partito, cambiare il suo linguaggio e le sue priorità, renderlo capace di comunicare e di rappresentare i bisogni e le esigenze della grande maggioranza dei greci, appartenenti all’oceano dei ceti medi, ora duramente colpiti dalla crisi.

L’obiettivo, in breve, è di trasformare un partito «di classe», con forte connotazione ideologica, in un partito «nazionale» (in senso gramsciano) che ritrova nella politica e non nei proclami la sua collocazione di sinistra. In sostanza, inventare ex novo una sinistra di governo, in cui il primo sostantivo non entra in contraddizione con il secondo. Ecco la ricetta di Tsipras.