Dopo l’approvazione del Jobs Act da parte del Senato le critiche e le polemiche non si sono placate. Anche tre riviste scientifiche specializzate sui temi del lavoro – Diritti Lavori Mercati; Lavoro e diritto; Rivista giuridica del lavoro – sono intervenute, in vista della discussione del testo alla Camera, offrendo un contributo (il testo integrale è scaricabile dal sito della Cgil). E così – secondo il loro parere – va condivisa l’esigenza, espressa dal governo, di semplificare la legislazione del lavoro. Tuttavia il disegno di legge delega numero 1428 (ora A. C. numero 2660) merita un serio ripensamento.

Sono stati evidenziati i rischi di incostituzionalità del ddl delega, laddove esso propone di «eliminare» e «semplificare» le norme «interessate da rilevanti conflitti di interpretazione». Per la nostra Costituzione la delega va sempre precisata, oltreché negli oggetti, anche nei principi e criteri direttivi, per evitare il potere assoluto del governo nel disciplinare materie ordinariamente di spettanza del Parlamento.

D’altra parte nella legislazione del lavoro sono moltissime le norme che hanno dato luogo a conflitti interpretativi: se si vogliono evitare operazioni al buio, l’esautoramento del Parlamento e futuri interventi demolitori della Corte costituzionale occorre dunque precisare fin dall’inizio quali sono le norme da cambiare e in quale direzione. Lo stesso può dirsi in materia di sanzioni; altrettanto vaga è l’auspicata nuova disciplina di contrasto del lavoro nero; infine non appare chiaro quale sia l’obbiettivo della semplificazione nel riformare l’universo dei lavori atipici.

La contraddizione con il dl Poletti

Ancor più delicato è il tema del contratto a tutele crescenti: non si comprende – osservano le tre riviste – quale sia la base di partenza dei diritti garantiti fin dall’inizio, né come tali diritti cresceranno nel corso del tempo, né quale sarà l’approdo finale. Non è chiaro nemmeno se questo nuovo contratto eliminerà, come dovrebbe essere, il contratto a termine senza causale.

Se infatti nei primi tre anni il contratto a tutele crescenti è soggetto a licenziamento libero, non ha senso prevedere un contratto a termine anche di poche settimane privo di motivazione. Il contratto a termine dovrebbe ritornare a essere quello di un tempo: valido cioè solo in presenza di esigenze aziendali temporanee e specifiche.

Lo stesso discorso vale per l’apprendistato, che dovrebbe riscoprire la sua vocazione essenziale di autentico contratto formativo. E quand’anche l’uno e l’altro contratto venissero rifondati, resterebbe comunque un problema: come evitare che vengano licenziati i lavoratori anziani, ancora beneficiari delle vecchie tutele, per assumere ex novo con le norme meno garantiste?

È poi davvero singolare che vengano esclusi dalla gestazione della riforma i sindacati e le altre forze sociali; il loro coinvolgimento è necessario perché previsto sia dalla Costituzione italiana (articoli 39, 40, 46) che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. D’altra parte chi meglio di loro è in grado di pilotare la risistemazione legislativa in modo che tenga effettivamente conto delle trasformazioni del mercato del lavoro?

I mutamenti intervenuti richiedono comunque un’attenta ridefinizione della nozione di “lavoratore subordinato”; nozione che nell’attuale contesto economico si deve poter espandere, onde ammettere a tutela ogni lavoro prestato personalmente.

Nel corso della riforma occorre evitare, poi, di relegare ancora una volta nell’ombra il lavoro pubblico “privatizzato”. Dimensione questa fondamentale non solo per una sana parità di diritti e di doveri tra lavoratori “pubblici” e privati, ma soprattutto per una vera riforma della pubblica amministrazione.

La nuova regolamentazione, tanto reclamizzata, sugli ammortizzatori sociali, sui servizi per il lavoro e sulle politiche attive non si innesta ancora in una prospettiva di un welfare moderno, dinamico, valevole per tutti. Appaiono discutibili alcune disposizioni: la previsione che condiziona le tutele alla «storia contributiva dei lavoratori»; la riduzione degli oneri contributivi (con probabile riduzione delle prestazioni); il diniego della cassa integrazione in caso di cessazione di ramo d’azienda; le disposizioni relative alla disponibilità dei dati circa la storia personale dei lavoratori che, ove resi accessibili alle agenzie private, consentirebbero nuove pratiche di black listing.

La deroga nel contratto aziendale

E infine non si può più rimandare una regolamentazione che faccia chiarezza sulle questioni generali: a quali condizioni eccezionali un contratto aziendale può derogare a norme di legge? D’altra parte occorre finalmente una disciplina che chiarisca per chi è efficace il contratto collettivo e come renderlo effettivamente inderogabile; chi ammettere alle trattative sindacali; come bilanciare l’alleggerimento delle tutele individuali con il controllo collettivo dei lavoratori sulle politiche aziendali.

***Sintesi di un documento pubblicato dalle riviste: Diritti Lavori Mercati; Lavoro e diritto; Rivista giuridica del lavoro. All’interno dello stesso articolo il link al testo integrale.