Musica da spaccare i timpani, incappucciamenti, «waterboarding», cani feroci sguinzagliati, privazione del sonno, isolamento, umiliazioni e violenze sessuali.

Il saudita Mustafa al-Hawsawi, 51 anni, accusato di aver partecipato al piano d’attacco alle Torri gemelle, da anni non riesce a stare seduto per i dolori inenarrabili al retto, in seguito alle brutali e ripetute violenze di sodomia subite nella detenzione ormai quasi ventennale nei siti della Cia e a Guantánamo. Mustafa mangia il meno possibile e spesso digiuna: per evitare i conseguenti terribili dolori.

Il palestinese Abu Zubaydah, detenuto dopo essere stato rapito dalla Cia e rinchiuso in una cella grade quanto una bara in un sito della Cia stessa, fu sottoposto alla tortura dell’annegamento, il «waterboarding», 83 volte. Dopo è finito a Guantánamo e nel 2043, se sarà ancora vivo, avrà 72 anni, e forse ne uscirà.

Gli altri detenuti, in tutto quaranta, tra ventiquattro anni semplicemente non ci saranno più, per motivi anagrafici, ma più probabilmente perché eliminati da malattie, invalidità, disturbi fisici e mentali, conseguenze di una infinita detenzione disumana, senza processo, illegale, senza ombra di diritto e di diritti, senza adeguata assistenza medica.

Perché il 2043? Perché la prigione nella base americana a Cuba è destinata a restare operativa per almeno altri due decenni, secondo i piani del Pentagono, su indicazione di Trump.

Eppure, specie dopo l’annunciato ritiro dall’Afghanistan e con l’escalation del terrorismo domestico, non ci sono più ragioni, se mai ci sono state, perché Guantánamo resti operativa e perché i detenuti non siano liberati o quanto meno trasferiti nei diversi paesi da cui provengono e dove furono violentemente e illegalmente rapiti per essere prima detenuti nei siti della Cia – torturati, violentati, umiliati – e per essere poi detenuti a Guantánamo in attesa di processi che non sarebbero mai arrivati.

Un orrendo capitolo delle orrende 1war on terror! e guerre in Afghanistan e nel Golfo. Milioni di morti. Decine di migliaia di caduti americani. Ottocento «terroristi» nei siti della Cia per poi finire nel buco nero di Guantánamo.

Vent’anni che pesano sull’America non meno di quelli del Vietnam. Ragione in più per porvi fine. Completamente. Non solo col ritiro da Kabul.

Immagini dalla prigione di Guantanamo (foto Ap)

A questo punto solo una forte, determinata decisione da parte della Casa Bianca può mettere termine a queste pagine ignominiose della storia recente americana.

Joe Biden può farlo. Può fare ciò che Barack Obama s’impegnò a fare e non fece. Per l’ostruzionismo incontrato al Congresso, a maggioranza repubblicana. Avrebbe dovuto farlo rapidamente, nei primi due anni della sua presidenza. Dopo, com’è avvenuto, non avrebbe avuto più le leve per farlo. E sarebbe diventato complice, di fatto, della vergogna che egli stesso aveva denunciato con forza e che aveva promesso di cancellare. Non averlo fatto sarà per lui motivo di grande rimorso, egli stesso ha poi detto.

Biden può chiudere Guantánamo come logico corollario dell’annunciata fine della presenza americana in Afghanistan. E perché il Congresso ha oggi una maggioranza democratica nei suoi due rami. Anzi, una parte importante del Congresso stesso glielo chiede.

In una lettera a Joe Biden, il 16 aprile scorso, un presidente di commissione, il senatore Dick Durbin, e 23 suoi colleghi senatori chiedono l’immediata chiusura della prigione di Guantanamo Bay «simbolo di illegalità e di abusi dei diritti umani». Almeno sei di loro possono essere rilasciati, gli altri trasferiti nei paesi d’origine, altri ancora finalmente processati e detenuti in carceri americane. Ai senatori si uniscono organizzazioni per diritti umani e una vasta opinione democratica.

L’urgenza di chiudere la prigione in terra cubana è dettata anche dall’evidente constatazione che la sua stessa esistenza – sostengono i senatori – annulla la pretesa dell’America di ergersi a potenza che tutela i diritti umani e la legalità nel mondo, ne danneggia la reputazione, alimenta il razzismo anti-islamico, ne indebolisce la lotta al terrorismo, peraltro oggi domestico.

E’ tempo di por fine a tutto questo.

Il rischio, adesso, è che il ritorno d’attualità del tema sia offuscato da altre vicende. Dopo la lettera dei senatori non si è avuto segno di averla ricevuta da parte della Casa bianca. Importante che se ne continui a parlare, che si faccia pressione.

A questo può servire anche un film come The Mauritanian, da poco disponibile su Amazon Prime, la storia vera di un pacifico cittadino mauritano, Mohamedou Ould Slahi, catturato, senza prove, dai servizi americani perché creduto coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, e detenuto a Guantánamo.

Un film crudo, che scuote le coscienze, anche di chi sapeva e sa della sinistra prigione, della pratica delle rendition e delle complicità europee, anche italiane. Una brutta storia che sarebbe oltraggioso tornare a dimenticare. A meno che non ci sia un interesse preciso a che proprio questo accada.