Nel ’53 la Francia fu paralizzata da uno degli scioperi più misteriosi: 4 milioni di lavoratori bloccarono tutto per dieci giorni. Ma ciò che più sconcertò il governo di allora fu l’assenza di qualsiasi rivendicazione. L’unica parola d’ordine degli scioperanti era questa: «Non si può più andare avanti così!».
Lo sciopero rientrò, così come era esploso, il 25 agosto in piene ferie estive. Singolarmente, la stessa parola d’ordine riecheggiava con incredibile frequenza tra i cittadini italiani in fila, domenica scorsa, davanti ai gazebo per scegliere il nuovo segretario del Pd. Riecheggiava nella forma di una richiesta di cambiamento che, nel rifuggire ogni precisa articolazione, si disponeva a includere qualunque cosa. E che avrebbe dunque decretato la vittoria trionfale del candidato che meglio rispecchiava un siffatto connubio di disagio e indeterminatezza.
Nelle parole raccolte davanti ai seggi il segno prevalente è stato quello della scommessa, dell’azzardo, non di rado accompagnato da uno scaramantico «speriamo di averci indovinato». Non si votava dunque una politica, ma una potenzialità, una speranza, un «nuovo» tanto nuovo da non potersi dire con precisione di che cosa si trattasse. Lo stesso slogan della campagna di Matteo Renzi, «L’Italia cambia verso» evoca al tempo stesso un cambio di direzione e l’incertezza della meta.
Qualcuno ha voluto vedere nella vasta partecipazione alle primarie e nel successo indiscusso del sindaco di Firenze un segno di vitalità o di ripresa della rappresentanza politica. Ma in realtà si tratta di tutt’altra cosa. Alla domanda di cosa o chi rappresenti la figura di Matteo Renzi non c’è risposta. Poiché non si tratta di una rappresentanza, ma di una proiezione. È una figura, quella del «rottamatore», che, così come la «gioventù» di cui si fregia, funziona da collettore di vaghe aspirazioni, concreti disagi, bisogno di novità. Una figura dai contorni indefiniti nella quale, per le ragioni più varie e talvolta contraddittorie, è facile per molti riconoscersi se non proprio identificarsi. La politica di Renzi non si muove nella logica classica della socialdemocrazia che produceva il suo interclassismo attraverso una sommatoria di rappresentanze sempre più eterogenee. Semmai è nel solco della mitologia della società civile che Renzi cerca una riscossa, simile a quella che l’abate Sieyès reclamava a suo tempo per il terzo stato il quale pur essendo tutto non contava nulla. Ma allora si trattava di una cosa seria e dettagliatamente argomentata.
Il nuovo interclassismo si fonda invece sulla proiezione in un «avanti» incerto e in una figura che si presume possa dar voce e forse agibilità politica, a quell’oggetto, a dire il vero piuttosto spettrale, che Ezio Mauro chiama «un giacimento di energia democratica al servizio degli ideali della sinistra». Un riferimento tanto vago ed elusivo delle reali soggettività sociali da prestarsi a qualsiasi interpretazione. Ma utile soprattutto a mascherare il fatto che tutta questa vicenda si consuma interamente dentro la crisi della democrazia rappresentativa. Laddove l’appellarsi continuo al «fare» esime dal dichiararne preventivamente contenuto e senso. E la celebrata «partecipazione politica» è ridotta nel migliore dei casi a tifo (quando sussista ancora qualche passione) e nel peggiore a un triste rito consolatorio. Certamente, tuttavia, nella scelta dell’indeterminato vi è il rifiuto di ciò che della sinistra conosciamo, delle inadeguatezze che abbiamo sperimentato, della caparbia riaffermazione di certezze che non hanno più alcuna presa sulla realtà, della miseria pratica e teorica cui siamo stati abituati, della distanza siderale tra governanti e governati. Pochi credono che la sinistra possa risollevarsi senza una soluzione di continuità.
Per questo, nella vittoria di Matteo Renzi conviene leggere non già un abbaglio o l’ennesimo exploit della politica-spettacolo ma una verità e l’esito conseguente di una storia. Non è stato certo il sindaco di Firenze a indicare come invalicabile l’orizzonte neoliberista entro il quale più adeguatamente di altri si è poi collocato.Una vittoria conseguita sul terreno della «scommessa», della «speranza», del «cambiamento sans phrase» ha però il suo tallone di Achille. Tanto è accogliente il non detto e l’indeterminato, tante sono le aspirazioni e gli umori che vi si proiettano, quanto numerose le delusioni e i rancori che esso rischia di suscitare. E allora il «non si può più andare avanti così» dello sciopero del ’53 continua a incombere come una minaccia, non un «giacimento» da sfruttare ma una soggettività pronta a ribellarsi.