Le attuali elezioni brasiliane, per ragioni interne e internazionali, rappresentano una situazione molto delicata, il loro esito avrà infatti ripercussioni che vanno ben al di là delle vicende politiche di quel Paese.

Alla fine di un mandato presidenziale (dal 2018 al 2022) segnato da grandi conflitti, Lula era dato vincente in tutti i sondaggi, in molti già dal primo turno, anche perché lo stesso fronte che alle precedenti elezioni aveva sostenuto Bolsonaro, rendendo possibile la sua vittoria, sembrava percorso da un processo di intima disgregazione. Il successo di Bolsonaro nel 2018 fu il punto di arrivo di lungo un processo di crisi del governo a guida Pt nel cui epilogo, secondo molti osservatori, si configurarono i termini di un vero e proprio golpe istituzionale.

Anzitutto il Parlamento disarcionò Dilma Rousseff dalla Presidenza della Repubblica con un procedimento di impeachment per il quale mancava qualsiasi presupposto giuridico-costituzionale; quindi, il Supremo Tribunale Federale rese possibile l’arresto di Lula, nonostante numerose irregolarità e tendenziosità indiziarie nei processi contro di lui intentati, tanto che i magistrati responsabili di quell’operazione sono oggi a loro volta oggetto di procedimenti a loro carico per reati molto gravi.

Le elezioni del 2018 furono precedute da una lunga campagna mediatica antipetista, così il partito di Lula si trovò nel banco degli imputati in un clima da guerra civile con crescenti tensioni sociali e culturali. In un quadro segnato dalla profonda crisi di egemonia delle forze politiche tradizionali (sia il Pt che la tradizionale forza conservatrice di centro, il Psdb), è venuta fuori la figura (fin lì marginale) di Bolsonaro, che nella sua scalata ha potuto contare sul crescente sostegno delle classi dirigenti nazionali (esercito, alta burocrazia, ceti imprenditoriali, mezzi di comunicazione di massa) e sulla mobilitazione capillare delle potentissime reti evangeliche tra i ceti medi e le grandi masse popolari delle periferie urbane e rurali.

Arrivando all’oggi, il risultato del primo turno delle presidenziali del 2022 per certi versi offre uno scenario previsto, perché il 48% per Lula è abbastanza coerente con alcune linee di tendenza emerse in sede di sondaggi elettorali, e per altri inatteso: la forza elettorale di Bolsonaro data alla vigilia al di sotto del 40%.

Tuttavia, anche questo risultato era nelle possibilità di una situazione fluida e per nulla definita. Due mesi fa, in una lunga intervista per Epohi, il giornale di Syriza, avevo fatto notare che sarebbe stato un grave errore sottovalutare nuovamente Bolsonaro, comunque capace di mantenere (nonostante scandali e contraddizioni varie) una significativa capacità di mobilitazione, conservando una base sociale governativa forte tra le fila della borghesia industriale, commerciale e soprattutto rurale che non solo continua a sostenerlo, ma considera una eventuale rielezione del capo storico del Pt una sciagura da evitare con qualsiasi mezzo.

In questi anni Bolsonaro ha puntato a consolidare la propria base militante, quella maggiormente radicalizzata e fondamentalista, più che tentare di ampliare le sue sfere di egemonia tra i ceti moderati. Si pensava che in questo modo il presidente uscente, incaricatosi di rappresentare il «sovversivismo reazionario» più truce, antidemocratico e retrogrado, avrebbe perso buona parte dei suoi consensi al centro dello schieramento politico, ma così non è stato. Da un punto di vista analitico, l’aspetto interessante, a mio avviso, è che Bolsonaro ha riconfigurato radicalmente modo d’essere, parole d’ordine e strumenti di lotta del mondo conservatore, dandogli un contenuto offensivo e radicale che comunque si è dimostrato capace di unificare dietro a una unica centrale di direzione politica un fronte sociale composito molto più ampio e solido di quanto si potesse immaginare.

È la stessa dinamica (in tempi e con forme differenti) affermatasi nell’Italia a cavallo della Prima guerra mondiale, quando, dinnanzi alla crisi di egemonia delle vecchie classi dirigenti liberali (Giolitti, Nitti, Salandra), si sono affermate figure per noi bizarre (ma in realtà molto efficaci) come Corradini, Marinetti e D’Annunzio, poi superate e unificate a destra da Mussolini.

Tutto ciò conferma un altro dato che avevo provato a chiarire in quella intervista, e di cui ho avuto conferma attraversando personalmente a Rio de Janeiro la grande manifestazione conservatrice del 7 settembre a Copacabana: il bolsonarismo è un fenomeno di massa tutt’altro che transitorio. Andrebbe studiato con estrema cautela, cogliendone anzitutto gli elementi (vecchi e nuovi) di originalità nazionale, per comprendere come questi interagiscono con un universo ideologico esogeno in cui convivono tanto suggestioni fascistoidi quanto concezioni neoautoritarie di mercato provenienti dal filone di pensiero della scuola di Mises e Hayek.

* docente di filosofia in Brasile alla Universidade Federal de Uberlândia; cofondatore e già presidente dell’’International Gramsci Society Brasil