Con la pubblicazione di Noi, esseri ecologici (Laterza, pp. 222, euro 16, traduzione di G. Carlotti), che segue di pochi mesi quella di Iperoggetti (Nero, pp. 290, euro 20, traduzione di V. Santarcangelo), l’editoria italiana sembra essersi accorta dell’importanza del lavoro di Timothy Morton, uno di più brillanti esponenti dell’«ontologia orientata agli oggetti».

PER QUESTA ontologia, tutti gli enti (umani compresi) sono oggetti e gli oggetti possiedono due caratteristiche principali: sono legati tra loro in una rete di rapporti interoggettivi e non sono mai completamente afferrabili da altri oggetti (pensiero umano incluso). Oggetti sono anche gli iperoggetti: «cose enormi», come l’evoluzione e la biosfera, «che si svolgono nell’arco di millenni», che «accadono su tutta la Terra» e nella cui «viscosità» gli altri enti sono immersi. Se già gli oggetti «iniziano a svanire» non appena ci avviciniamo loro, gli iperoggetti sono entità ancora più oscure che ci introducono in uno spaziotempo, fatto di «ombre e angoli nascosti», su cui si infrangono definitivamente le pretese umane di controllo. Con questo equipaggiamento teorico Morton affronta il riscaldamento globale, l’iperoggetto per eccellenza, proponendoci un’ecologica inedita, tanto inedita da fargli affermare che «quasi tutto il discorso ecologico non è ecologico».

Secondo Morton, per impegnarci in una riflessione che sia all’altezza di quanto potremmo «trovarci a vivere» – un’«estinzione di massa» –, dovremmo innanzitutto smarcarci dalla «modalità discarica di informazioni», ossia da quella tendenza a elencare con puntigliosità pretesca i numeri dell’attuale catastrofe ambientale. E questo per almeno due motivi: perché un simile approccio ci dà l’illusione di trovarci «in un punto fittizio nel tempo prima che arrivi il riscaldamento globale» «entro cui ci troviamo già» e perché i «predicozzi» esaltano l’economia della colpa che sta alla base di quella «religione agricola» che, instauratasi 12 mila anni fa con la rivoluzione neolitica, è la causa e non la soluzione di quanto stiamo vivendo. Al pari di altri – ad esempio, Moore e Haraway –, Morton prende quindi le distanze dalla retorica dell’Antropocene, non per unirsi alla schiera dei negazionisti, ma per mostrarci che il problema non sono i comportamenti dei singoli individui umani ma l’organizzazione sociale che li rende possibili. Per questa ragione è necessario concentrarsi sulle dinamiche politiche che ci hanno portato qui dove ci troviamo e non tanto sui loro effetti.

IN ALTRE PAROLE, non possiamo pensare di uscire dalla crisi ecologica – cosa per altro impossibile – tramite un ancor più rigido controllo tecnocratico del pianeta e dei suoi abitanti, ma dobbiamo imparare a «vivere il sapere ecologico». E ciò significa prendere congedo dall’antropocentrismo, «sbarazzarsi» dell’idea di Natura, «concetto appiattente progettato per attenuare la nostra consapevolezza dello spazio di sintonizzazione» con il resto del vivente. Significa accettare che il mondo è già finito e provare a «usare alcuni degli strumenti rotti e inadeguati che abbiamo» per «reimmaginare completamente come fare le cose», per «sviluppare nuove forme di piacere» e di convivenza, in cui «un’attenzione giocosa» prenda il posto dell’ideologia economicista della «pura sopravvivenza» e della «sostenibilità». Viviamo da tempo sulle vette di una valle la cui profondità è il «prodotto dell’antropocentrismo, del razzismo e dello specismo, della xenofobia», della «paura degli altri che è spesso in realtà la paura di quanto abbiamo in comune» con loro.

L’ecologia dark di Morton ci esorta ad appiattire questa valle fino a renderla una pianura, in cui le categorie discriminatorie «iniziano a incepparsi», in cui torniamo a essere «esseri tra gli altri». Troppo poco? Se incamminarsi verso un’ecologia che ci porti fuori dal linguaggio della casa, unificando le istanze trasformative che oggi viaggiano separate, vi pare poco, beh, allora, questo libro non fa al caso vostro.