Se per uno strano scherzo del destino perdessimo ogni ricordo e venisse di colpo spazzata via la memoria di come, negli ultimi cinquant’anni la sinistra abbia segnato la cultura politica e sociale del nostro Paese, la prima cosa che mi verrebbe in mente per tentare di ricostruire il filo sarebbe assemblare le prime pagine de il manifesto.

Metterei in fila quei titoli iconici e irriverenti che molto tempo prima della nascita del web e dell’invasione dei meme, hanno testimoniato e riassunto il «fatto del giorno» in un’immagine e poche, geniali parole.

Scorrerli con la velocità di una proiezione cinematografica restituirebbe il senso di un racconto imponente, svolto da una prospettiva radicale.

Dichiaratamente di parte, certo, ma mai piegata alle convenienze della contingenza storico-politica e all’ortodossia imperante. Lascito di una fondazione, avvenuta proprio sulla base della non fedeltà a una linea, che ha sempre collocato il giornale «dalla parte del torto».

Un elemento ulteriore, poi, che secondo me caratterizza il manifesto e tiene insieme il giornale di Rossana Rossanda e quello diretto oggi da Norma Rangeri sta nella capacità d’intreccio delle lotte.

Da quelle operaie della Montedison di Castellanza a cavallo degli anni ’70 fino al «No delivery day», lo sciopero nazionale dei rider che per denunciare le loro alienanti condizioni di lavoro, il 26 marzo scorso hanno bloccato le consegne in più di 30 città italiane. Dalle battaglie di Mario Mieli a quelle odierne per l’approvazione della legge Zan contro ogni discriminazione fondata sul sesso, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sulle disabilità, sul sessismo e la misoginia.

Un necessario sforzo di saldatura che, chi ha partecipato alla nascita di questa fortunata esperienza giornalistica, aveva chiaro fin dal principio.

Mi hanno colpita alcune parole di Lucio Magri dette già nel 1977 e ricordate da Luciana Castellina in una sua recente pubblicazione (La Fabbrica del Manifesto, Manifesto libri, 2020) a proposito della necessità di unire le lotte dei movimenti ecologisti e femministi a quella operaia.

Secondo Magri stabilire un rapporto fra loro sarebbe stato «essenziale non solo per evitare l’isolamento degli uni e degli altri ma anche per garantire un salto della classe operaia oltre l’economicismo e lo statalismo, necessario a gestire la crisi e a costruire un nuovo tipo di socialismo».

Penso, in effetti, che sia la politica, almeno per come è organizzata oggi in Italia, a ostinarsi a dividere ciò che sta già marciando insieme. L’abbiamo visto prima della pandemia nelle piazze giovanissime che scioperano per il clima e per il lavoro dignitoso, contro il razzismo e per la parità di genere.

La sovrapposizione dei volti e delle istanze di quelle piazze è segno di una nuova consapevolezza che si fa largo nella società. Ci stanno mostrando una via, quella dell’intersezionalità: unire le lotte per rovesciare il modello che crea e alimenta le diseguaglianze sociali, di genere, territoriali e insieme distrugge il pianeta.

Solo così si potranno affrontare le nuove sfide e dare risposte ai bisogni concreti delle comunità e delle persone, di lavoratrici e lavoratori e di chi fa più fatica.

Auguri al manifesto, perché continui a raccontare e accompagnare le lotte che speriamo sempre più unite, auspicando tante altre prime pagine che segnino avanzamenti e vittorie per la giustizia sociale e ambientale.