Logiche di dominio, sorveglianza digitale di massa, quantificazione spasmodica di like commenti visualizzazioni, scalabilità – all’inizio riguardava il gruppo dei colleghi universitari di Zuckerberg, come si è esteso al mondo intero o quasi? – profilazione, registrazione di ogni nostra preferenza o azione, geolocalizzazione, algoritmi, genitori che si creano account farlocchi per avere uno straccio di interazione con i figli, infernali gruppi whatsapp, usurpazione di identità, hate speech, cyber stalking, pornovendette e altre «banalità dell’odio», incontri online, poker online, acquisti, e truffe online, fear of missing out, connettersi o morire, selfie su precipizi, spionaggio nella vita di coppia, in quella lavorativa, paranoia securitaria, delazione, panico globale, nazionalismo, razzismo, sessismo, fascismo, pogrom…

Inoltrandosi in questo straniante alfabeto di virtuale e reale, di già conclamato e di possibile, Internet, mon amour, sottotitolo Cronache prima del crollo di ieri di Agnese Trocchi, del gruppo C.I.R.C.E., si muove sul confine scivoloso tra l’oggi e un futuro plausibile – come siamo e come potremmo diventare – raccontando al passato, alla lente chiarificatrice della distanza, gli effetti della «Grande Peste di Internet».

Individuato lo spartiacque del 2016, come avvento dell’internet tv, prateria di contenuti che ci offriva «la magnifica possibilità di non dover scegliere», Trocchi – pensando all’opera senza tempo di Boccaccio – avverte la necessità di un luogo altro da cui riflettere sui luttuosi eventi di «allora», l’esigenza di 5 «stanze irraggiungibili della narrazione» da cui ritracciare i bandoli di quelle nostre storie eterodirette e deviate. Così immagina che una compagnia di amici (hacker, lavoratrici dei social media, artisti), si riunisca in una casa in campagna, in un luogo scevro dai tentacoli di Maps, dai droni e dal wifi coatto e che decida di indagare, smascherare le nostre percezioni offuscate.

«Fino a quando le macchine staranno ad ascoltarci, obbedienti ai comandi dei più squinternati e sociopatici fra noi, invece di allearsi con piante, funghi, batteri e altri viventi per farla finita con la piaga umana?». (Scrive, pensando a Donna Haraway di Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto).
Pure, quella che sembra inquietante preveggenza – il libro è stato scritto prima della pandemia – è capacità di cogliere fragilità strutturali di gran lunga preesistenti. E cosa accade poi se allo scenario tracciato si aggiunge adesso il distanziamento sociale, col suo acuire derive relazionali sempre più asettiche e separatrici? Se la quarantena incrementa parossisticamente il numero di ore di connessione al giorno per essere umano?

Così abbiamo discusso con Agnese Trocchi e Maurizio Mazzoneschi – esperto di e-learning, progettista e formatore – di cosa ci stia accadendo, di come sviluppare autodifesa digitale senza rinunciare ai benefici della tecnologia, di «informatica conviviale» e dei laboratori di «pedagogia hacker» che insieme svolgono per ragazzi e adulti, insegnanti e genitori, e per chi desideri prendere coscienza, oltre la «gamificazione», oltre la competizione senza fine dei vinti addestrati e sfruttatati, di come eravamo nell’acquario tecnologico.

Agnese, come guarda a «Internet, mon amour» dopo quello che abbiamo attraversato?
(Trocchi) Ovviamente il libro – datato 2019 – è uscito in tempi non sospetti rispetto alla pandemia. E il caso ha voluto che io mi sia trovata a scrivere una prefazione per l’edizione inglese proprio dall’interno della zona rossa italiana. In questo frattempo è come se la realtà avesse imitato l’arte. Nel libro racconto la Grande Peste di Internet, momento in cui le relazioni sociali si avvelenano, a causa degli strati di interazione tra noi e le macchine. Allora ci imbattiamo in orde di odiatori e in branchi di persone allo sbaraglio.

Invece cosa accade oggi?
(Trocchi) Paradossalmente sembra vero il contrario, che internet sia venuta a sottrarci all’isolamento sociale. Come faremmo senza queste salvifiche tecnologie che ci supportano durante il tempo della quarantena con streaming e contenuti illimitati? Invece, secondo lo spirito che è proprio della pedagogia hacker, ci piace andare a sollevare gli strati.

E cosa scopriamo?

(Trocchi) Non penso a una dinamica complottista, ma guarda caso siamo preda di un grande esperimento sociale, online fino a 18 ore al giorno (dai nostri dati, prima il massimo era 6 8 ore). Questo per farci un’idea di quanto sia cambiata la nostra vita, adagiata sulle interazioni digitali. Che ora permeano tutti gli aspetti più intimi: tanto che in questi mesi abbiamo potuto sentire i nostri parenti e amici solo tramite la rete mentre il lavoro, con lo smart working, è entrato nelle nostre case.

Si tratta allora di «pesti» al plurale e non di una narrazione emergenziale? Mi rivolgo anche a lei, Maurizio.
(Mazzoneschi) Sì, la sostanza del sistema non è mutata. La pandemia non ha fatto che accelerare i processi descritti da Agnese.
(Trocchi) Nell’emergenza emergono tutte le vulnerabilità della società e se, finora, eravamo abituati a delegare alle interazioni digitali le nostre relazioni sociali, lavorative, affettive, ora tutto scoppia. Il libro parte da storie reali, spiega quali erano i comportamenti a rischio, le trappole. Propone trucchi facili da mettere in atto, prestando attenzione a ciò che «sta dietro» l’apparenza degli schermi.

Parliamo di «quantificazione» e «scalabilità», relazioni come numeri, contatti sostituibili, usa e getta: e l’unicità della persona?
(Trocchi) Sugli effetti malsani della quantificazione Letizia Oddo ha scritto L’inconscio fra reale e virtuale. Schiacciare su una questione numerica (like, «amici», follower, «che bello, quanti ne ho»), ambiti per nulla quantificabili, ma legati al nostro inconscio, alle nostre pulsioni, fa sì che la nostra ombra venga fuori con ondate d’odio sui social, lo scenario più deleterio.
(Mazzoneschi) Scalabilità vuol dire che più una tecnologia è estesa e più riconfigura gerarchicamente i rapporti tra le persone e tra umani e non umani. Le grandi piattaforme sono costruite in modo che tu ottenga ricompense solo operando in un certo modo. E l’originalità della singola soggettività è disincentivata. Senza dire che la coazione alla quantificazione, al gran numero di contatti trascende la nostra capacità di valorizzarli.

Prendo in prestito una frase provocatoria da un articolo di Wolf Bukowski su Giap: «Perché il capitalismo ci vorrebbe senza corpo se guadagna anche dal nostro corpo?» O con il corpo frustrato; perché, a dispetto delle teorie del dottor Spock, che promuoveva il distacco corporeo dal neonato, da cui vennero nevrosi a iosa, sappiamo che l’essere umano – dalla nascita – non può vivere senza il contatto fisico e che questa carenza rende gli individui più insicuri e aggressivi.
(Mazzoneschi) Non credo che il capitale voglia fare a meno dei nostri corpi, tanto è vero che quando parliamo di gamificazione, il meccanismo fa riferimento al piacere, alla dopamina emessa quando riceviamo ricompense sui social. Il capitale vuole corpi asserviti e che non scelgano.
(Trocchi) Ci vuole sempre connessi (da cui la Fear of Missing Out, paura di essere tagliati fuori), vuole gestire il nostro corpo e il nostro tempo.
Ma il tatto è l’unico dei nostri sensi di cui non possiamo fare a meno. E che se consideriamo la costrizione del corpo che si ha con l’uso inconsapevole del digitale, unita ora al distanziamento sociale, mi chiedo quali possano essere gli effetti (Naomi Klein su L’Espresso ha parlato di un «futuro senza contatto fisico» accelerato dalle multinazionali sotto la pressione della pandemia…). Ha scritto Marco Bascetta: «Qualcuno valuta con speranza l’impossibile ritorno alla ‘normalità’ perché questa era caratterizzata da ingiustizie, diseguaglianze sociali, sfruttamento. Ma ‘normalità’ ha anche un altro irrinunciabile significato, la natura sociale, relazionale, affettiva, corporea, sensibile dell’animale umano. Che la dimensione telematica possa assorbire tutto questo e surrogarlo è una cattiva utopia, una triste illusione».
(Mazzoneschi) Quando parliamo di tecnologie conviviali non stiamo dicendo che per noi umani è possibile vivere senza il contatto fisico. Ci riferiamo a tecnologie che ci lascino anche la libertà di incontrarci e di toccarci. Un conto è dire che il capitale ha bisogno dei nostri corpi e un altro è affermare che ha interesse che le nostre relazioni siano libere e dunque anche corporee. Quindi sono d’accordo con te Maria: il tatto non è qualcosa di sostituibile all’interno delle relazioni e ci mette in comunicazione con gli altri esseri umani, gli animali, le piante, i batteri, e anche con le macchine.
(Trocchi) Sì, il contatto è imprescindibile. Noi non diciamo che non ci piacciono le macchine ma che possiamo costruire macchine diverse, liberarci dall’oppressione delle tecnologie del dominio e immaginare insieme un nuovo ruolo del nostro corpo nell’uso dei dispositivi, imparare a scegliere una password sicura, essere consapevoli di come la privacy sia una ricchezza.
(Mazzoneschi) Nei nostri laboratori lavoriamo sul valore della scelta. La consapevolezza ci sottrae agli automatismi dei giochi, ribalta i ruoli.

Con il mancato contatto fisico rischia di perdersi l’empatia. Estremizzando, penso al mirino di guerra.
(Trocchi) Sì, lo sforzo e i suoi effetti sembrano scomparire – vedi la retorica del contactless – ma non ne siamo consci. Però le conseguenze sul nostro corpo e su quello della società si pagano comunque.
(Mazzoneschi) C’è un racconto nel libro in cui una ragazzina dà a un ragazzo una propria foto dove è parzialmente svestita e lui la diffonde. Ecco, quel tipo di relazione apparentemente senza contatto fisico, ha una implicazione corporea e provoca un malessere profondamente corporeo. Per questo nei nostri laboratori con ragazzi/e sottolineiamo come – una volta inviata – un’immagine non sia più controllabile, e come un gesto su un social abbia conseguenze nella vita reale.
(Trocchi) Invece di proibire è essenziale parlare coi figli dei rischi dei social, leggere prima insieme i termini del servizio, evidenziare come la rete sia uno spazio pubblico. Bisogna anche sfatare il fatto che esistano nativi digitali e adulti incapaci. Tutti possiamo diventare hacker consci dell’utilizzo dei dispositivi interconnessi.

Buona parte del libro è dedicata alle relazioni – interpersonali, amicali, con sconosciuti – . Vorrei inoltrarmi proprio in quella genitori figli (che mi tocca in prima persona come madre), in un parallelismo con quella tra Stato e cittadini. Luce Irigaray in «Nascere – Genesi di un nuovo essere umano» sottolinea come la nostra cultura non educhi all’autonomia e come sia arduo liberarsi della placenta familiare politico-sociale. Agnese, lei parla di paternalismo libertario, delle «Megamachine» di Lewis Mumford e de «L’Anti-Edipo» di Deleuze Guattari. É più facile sottoporre a controlli un cittadino infantilizzato o un figlio non educato alla responsabilità, anziché creare una relazione fondata sull’autonomia e sulla fiducia reciproca?
(Trocchi) Noi ci riferiamo alla Pedagogia degli Oppressi di Paolo Freire, che distingue un’attitudine educativa paternalistica da una esperienziale, in cui creiamo insieme una nuova conoscenza tramite l’esperienza. In quel breve video in cui sono stata presidente del Consiglio per un giorno, immaginiamo uno Stato che si mette in gioco con il cittadino per trasformarsi vicendevolmente.

Scrive Agnese: «Si identifica una dinamica relazionale complessa parentale lavorativo affettivo legislativo democratico con un semplice problema risolvibile con un sistema tecnico adeguato». Penso al parental control come delega da parte dei genitori o al catfish (gergo tecnico relativo all’account fatto per spiare il figlio, la figlia).

(Mazzoneschi) Lo Stato e le grandi piattaforme vogliono liberarci della «difficoltà» di scegliere, di imparare e di sbagliare. In questo senso i padroni digitali ci considerano come sudditi. Spesso poi c’è la tendenza a chiedere alla tecnologia soluzioni che, se esistono, sono parte di dinamiche relazionali complesse. Come la questione dell’app Immuni: il controllo del contagio non è materia che si può delegare alla tecnologia ma riguarda il presidio territoriale e le relazioni tra i medici di base nonché la capacità del singolo cittadino/a di comprendere e autoregolarsi.

E per quanto riguarda la genitorialità? secondo la mia esperienza (anni fa una mamma il cui figlio alle elementari stava ore su un social mi disse, «sì, ma almeno sta a casa»), penso a quanto sia complesso non cadere nell’invasività o all’opposto nell’utilitaristico disinteresse.
(Mazzoneschi) La questione del controllo parentale funziona allo stesso modo dove c’è una relazione irrisolta: il genitore si sente incapace di attraversare la dinamica relazionale per crescere con il figlio e allora chiede una soluzione tecnologica per cercare di sapere in ogni momento dove sia. É evidente però che questi dispositivi non solo non possono sostituire il rapporto – farcelo credere è una delle grandi demagogie del nostro tempo – ma possono anche essere aggirati. Perché se io voglio fregare il mio genitore perché non c’è un rapporto di fiducia e so che ha il controllo della mia posizione tramite cellulare, posso dirgli che vado da un amico e poi lascio lì il telefonino e vado dove mi pare.

Parliamo di didattica a distanza …Cosa è accaduto?
(Mazzoneschi) C’è stata un’accelerazione di un processo verso la privatizzazione della scuola pubblica, già in corso da tempo. Da anni il ministero dell’Istruzione parlava di e-learning e didattica a distanza. Ma non ha agito, né dal punto di vista delle strumentazioni tecnologiche, né da quello delle capacità strutturali. Poi, sotto lo stato di necessità attuale, ha affidato la Dad a multinazionali come Google, Amazon, Microsoft, producendo un’ulteriore slittamento della scuola verso la privatizzazione, come è avvenuto in altri settori, come la sanità.

Non solo quindi, da parte delle multinazionali, la profilazione dei ragazzi attraverso i social, ma l’ingresso nello spazio della scuola come qualcosa di inedito nella storia italiana, «un intervento a gamba tesa», è così?
(Mazzoneschi) Senza mitizzare la scuola in presenza, bisogna sottolineare che la Dad ideata dalle multinazionali ripropone la lezione frontale, richiede competenze e non conoscenze, e utilizza il metodo gerarchico, non permettendo di collaborare in gruppo. C’è poi la questione delle diseguaglianze e del divario digitale nel Paese, altro capitolo enorme.
Inoltre la Dad consente ai grandi gruppi privati un accaparramento di dati sugli studenti (facendo carta straccia del Regolamento Europeo di Protezione Dati adottato dall’Italia), ma anche sugli insegnanti. Da qui si passa all’introduzione automatica di contenuti ad hoc. Come quello di essere lavoratori pedissequi e precari a vita. Cosa che già accade nella scuola americana, ma che, sì, non era mai avvenuta in quella italiana.

Nel libro una nonna soffre del disinteresse dei nipoti, fissi sui cellulari, ma anche molti adulti preferiscono relazioni virtuali. Come lei racconta, Agnese, esistono perfino dispositivi che pretendono di far «rivivere» persone accumulando i loro dati. D’altro canto, durante la pandemia lo Stato si è imposto anche nella sfera reale del lutto.
(Trocchi) Anche in questo ambito si viene incantatati dalle sirene dell’attaccamento. E per le grandi multinazionali è un’occasione ghiotta. Sono moltissimi i profili di persone morte presenti in rete ed esiste una procedura di FB per cui si può decidere chi sarà l’erede della propria pagina memoriale. Poi c’è il dramma di chi in questi giorni non ha potuto affrontare sotto certi aspetti la perdita di un proprio caro. Se qualcuno prova sollievo con la tecnologia ben venga, ma credo che anche in questo caso non sarà un app a salvarci.
(Mazzoneschi) Come dicevamo per la Dad, che non potrà mai surrogare il piacere del tornare insieme da scuola o il rincorrersi durante la ricreazione – perché queste sono cose che formano la persona – così una pagina memoriale non potrà mai sostituire l’abbraccio in presenza col proprio fratello comune.