La recente Risoluzione del Parlamento europeo «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» è un fatto grave. L’Europa dell’Unione si mostra ancora soggetta a spinte e tensioni che denotano l’immaturità complessiva di un progetto. Si tratta infatti di un accordo al ribasso fra soggetti politici nazionali animati per lo più da rancori, volontà di rivalsa, miopia, mancanza di senso della storia e della democrazia. Questa Europa cattiva maestra difficilmente potrà avere il futuro immaginato e profilato dai Padri Fondatori del Manifesto di Ventotene.

L’equiparazione di nazismo e comunismo è risultato di una mediocre giustapposizione di ressentiment e strumentalizzazione. Davide Conti sul manifesto ha già ricordato come cancellare il contributo dei «partigiani comunisti» alla liberazione dell’Europa dal nazismo sia un falso storico e un’offesa alla loro memoria. E come lo sia la sottovalutazione del ruolo decisivo svolto dal 1942, in un’Europa ancora schiacciata dal giogo nazista, «nell’immaginario collettivo dalla Resistenza delle città di Leningrado e Stalingrado». Persino la Conferenza di Casablanca del gennaio 1943, che inchiodò Germania, Italia e Giappone ad un destino di «resa incondizionata», non avrebbe potuto ardire tanta sicumera senza l’esempio di Stalingrado.

Fra le molte, particolarmente significativa è la testimonianza di Vasilij Grossman. Corrispondente di guerra sovietico, fu il primo giornalista ad entrare nel campo di Auschwitz appena liberato il 27 gennaio 1945, oggi ricordato come Giorno della Memoria. Ma in precedenza era stato a Treblinka. Altro campo di sterminio, il primo che, il 2 agosto 1943 aveva visto deportati ridotti alla disperazione trovare la forza di insorgere e incendiare il campo. Costringendo i nazisti a chiuderlo.
È interessante vedere a cosa e in nome di chi si ribellassero.

Grossman, ebreo russo (tutt’altro che un propagandista, fu perseguitato dalle autorità sovietiche e il suo grande romanzo Storia e destino sequestrato e vietato), interrogò decine di sopravvissuti alla rivolta di Treblinka e racconta. Racconta come uno scampato «sentì i trenta ragazzini del coro che prima di essere fucilati intonarono una canzone patriottica russa, Vasta è la mia terra; sentì uno degli stessi ragazzi urlare “Stalin ci vendicherà!”». Ricorda come all’indomani di Stalingrado Himmler in persona raggiunse lo sperduto campo di Treblinka per dire che non si dovevano più sotterrare gli ebrei uccisi, perché i russi avrebbero potuto esumare i cadaveri e scoprire il genocidio. Dunque gasare non bastava più, non bastavano più le fosse comuni, occorreva bruciare, ridurre in polvere i cadaveri. Questa immane opera di annichilimento, delle persone e della memoria, fu impedita dall’avanzata da est: «l’Armata Rossa: ecco chi impedì a Himmler di mantenere il segreto di Treblinka».

L’Europa non lo dimentichi. Perché se esiste e può approvare Risoluzioni è anche per questo. Quando poi in una Risoluzione sulla «memoria» si dice che la seconda guerra mondiale scoppiò come «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrop-Molotov, allora è dovere ricordare che la fine del nazismo fu semmai conseguenza immediata della resistenza prima e dell’avanzata poi dei sovietici. Scriveva Grossman nel 1944 (cioè a guerra non ancora conclusa): «Se Himmler in persona prese un aereo, si presentò a Treblinka e ordinò di cancellare al più presto le tracce dei crimini commessi» fu «per l’eco del colpo durissimo che i russi avevano inferto ai tedeschi sul Volga».

Ma forse giova ricordare cosa intendesse Himmler per «cancellare le tracce». Furono costruite delle fosse immense, al fondo innalzati centinaia di piloni di cemento collegati fra loro da cavi d’acciaio e pezzi di binari incrociati. Insomma una «gigantesca graticola». Le fiamme erano alte molti metri, si vedevano da decine di chilometri di distanza, «l’odore di carne umana bruciata impregnava l’intero distretto». «Nel suo inferno Dante non le vide, scene come queste», chiosa Grossman. Di questo dunque stiamo parlando. Di questo dovrebbe parlare una Risoluzione sull’uso pubblico della «memoria».

Ai paesi dell’est Europa che all’indomani della guerra hanno sofferto per regimi comunisti autoritari e repressivi andavano forse ricordate (ma da chi? Non certo dai parlamentari italiani che hanno votato a favore o hanno fatto gli ignavi) le parole di un liberale come Benedetto Croce: «La storia non è giustiziera, è giustificatrice». Bisogna studiare, approfondire, capire, distinguere.

Nel momento capitale della guerra mondiale fra comunismo e nazismo vi fu differenza ontologica. E condizione preliminare della qualsiasi «memoria europea», come di ogni serio esercizio della storia, deve essere l’onestà intellettuale, non certo la damnatio memoriae.