Da anni ci aggiriamo in un luogo comune. Guardiamo questa maledizione per cui l’Italia resta ostinatamente senza sinistra mentre gli altri paesi europei con i quali ha senso un confronto sperimentano formazioni nuove e vive e capaci di raccogliere vasti consensi e di candidarsi plausibilmente al governo di importanti regioni o addirittura al governo nazionale sfidando l’Europa della tecnocrazia e della finanza. E ne traiamo come per coazione la conseguenza che «anche noi» dovremmo fare altrettanto.

Che «anche da noi» occorre unire i pezzi, fare la sintesi dell’esistente per cavare dall’arcipelago delle forze di alternativa una formazione unitaria in grado di riscattare la sinistra italiana da un’annosa impotenza. E così finalmente sovvertire una condizione mortificante che da un decennio a questa parte – ma a ben guardare da un quarto di secolo, dalla liquidazione del Pci – vede la sinistra sostanzialmente esclusa dalla scena nazionale, relegata in ruoli marginali e di complemento, ridotta perlopiù all’inefficacia della protesta fine a se stessa o a sostenere governi e amministrazioni intenti a perseguire fini antitetici ai suoi. E per ciò costretta a rinnegare la propria ragion d’essere, finendo con l’apparire ai propri stessi sostenitori svilita, esausta, quando non trasformata, con effetti alla lunga rovinosi, in un’appendice della famigerata «casta» sotto mentite spoglie.

Del resto, si dirà, che altro fare o sperare? E perché d’altra parte quanto è riuscito altrove – in Germania, in Spagna, in Grecia innanzi tutto – non dovrebbe capitare finalmente anche da noi? Così il dibattito inciampa su se stesso da tempo immemore (almeno dal disastro del 2008) e si avvita dentro un copione logoro. Quali che siano le responsabilità in materia, non si vedono luci all’orizzonte. Non solo il conflitto politico ha qui e ora tutt’altri protagonisti, ma tutto lascia presagire che nella prossima legislatura sarà, se possibile, ancor peggio. Che si voti col consultellum è inverosimile, e anche in questa eventualità la sinistra (Sel) non andrebbe oltre percentuali testimoniali, stando ai trascorsi recenti e agli ultimi sondaggi. Più probabilmente si voterà con l’italicum nell’unico ramo del parlamento eletto. E allora la partita si risolverà tra le due varianti del partito della nazione (Pd e Fi), la Lega e il movimento della protesta erede dell’Uomo qualunque.

La situazione è grave e seria, inutile girarci intorno in cerca di futili consolazioni. A dare la misura basta un rapido confronto con quanto è accaduto qualche giorno fa (e in questi ultimi mesi) in Gran Bretagna, in seno a quel partito laburista per molti versi simile al partito democratico italiano. Tutti abbiamo letto della vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del Labour party e ne abbiamo gioito, augurandoci che essa sia il primo passo di un cammino che non solo porti i laburisti a sfrattare la destra da Downing street alle prossime politiche ma restituisca altresì la sinistra britannica, dopo mezzo secolo, a una tradizione di lotte in difesa del proletariato, dei diritti sociali e della pace. A una storia gloriosa di battaglie a fianco delle Unions e dei movimenti sociali più avanzati ripudiata sin dai tempi del ventennio thatcheriano.

Ma oltre a compiacerci dovremmo forse chiederci se il caso Corbyn non possa essere d’insegnamento anche per noi, per la sinistra italiana, malgrado tutte le differenze che separano i due contesti. Dovremmo farlo innanzi tutto per una ragione di prima grandezza. Mentre il modello dell’unità dell’arcipelago conduce di norma alla costruzione di una forza complementare destinata ad allearsi con la forza maggiore della «sinistra moderata» contro lo schieramento conservatore (figlia di una crisi radicale, Syriza è l’eccezione che conferma la regola), il modello Corbyn si caratterizza per la tensione all’obiettivo massimo: la guida del principale partito della sinistra e, di qui, la conquista del governo del paese.Ma naturalmente la questione, posta in questi termini, appare troppo semplice. Se è vero che la lunga

marcia vittoriosa del leader della «sinistra radicale» in seno al partito principale della «sinistra moderata» è la sola strategia in grado di rimettere le forze dell’alternativa al centro della scena politica nazionale riscattandole dal ruolo esornativo o subalterno al quale sono altrimenti destinate, bisogna d’altra parte domandarsi quali siano qui da noi gli ostacoli all’assunzione del modello Corbyn.

A cominciare dai due principali, tra loro connessi: l’assenza di un Corbyn italiano, di un leader coerente e autorevole della sinistra, capace di reggere l’isolamento e l’inattualità nel corso di una battaglia impervia, oscura e inevitabilmente lunga; e, appunto, la grande difficoltà di un lungo cimento senza certezze né prebende, volto a ricostruire valori e principi, un rinnovato senso comune critico e nuovi gruppi dirigenti lontani dall’ideologia dominante e dalle seduzioni dell’interesse personale. Un cimento frontalmente opposto ai frequenti esercizi trasformistici e che, nel caso italiano, dovrebbe per ciò stesso dirigersi in primo luogo contro la sedicente «sinistra interna» del Pd, convertitasi sin dalla Bolognina al neoliberismo e alle guerre umanitarie e principale artefice della mutazione moderata della sinistra postcomunista.

Si tratta, con ogni probabilità, di una missione impossibile. Non dovrebbe, in teoria, essere così. Quella inattualità (qualcuno la chiamò «diversità») dovrebbe caratterizzare il corredo morale e persino l’antropologia della sinistra – di donne e uomini che, vivendo in questo mondo, non dovrebbero tuttavia appartenere a questo mondo. Invece vi appartengono eccome, ragion per cui la via regia della battaglia per il governo nel segno dell’autonomia appare impraticabile. Per questo sembra ragionevole rassegnarsi a non contare nulla e a farsi tutt’al più rappresentare dalla protesta; per questo ci si appassiona, nonostante tutto, alle scorciatoie «realistiche» sin qui praticate.