Non pochi sono i malumori e le critiche che la lista Tsipras e tutto ciò che le ruota intorno stanno suscitando in questi giorni, soprattutto negli ambienti più radicali. Ne è un esempio la «lettera aperta», piuttosto livorosa, che Carlo Formenti ha dedicato all’argomento, accusando l’intera operazione di narcisismo professorale e accecamento elettorale.

Accenti così aspri si potrebbero capire se questo o quel «miraggio elettorale» stesse rischiando di distogliere energie e attenzione in una fase di forte espansione dei movimenti o addirittura di condizionarne la percezione e manipolarne il senso di marcia. Ma con tutta evidenza questo scenario non corrisponde in alcun modo alle attuali circostanze, per quanto ottimismo si possa spendere nella loro lettura. Cosicché il linguaggio del purismo antiborghese suona più che altro come un esercizio di maniera.

Tuttavia vi è un motivo di allarme che converrebbe raccogliere. Cominciando col chiarire un pericoloso equivoco di fondo. La lista Tsipras non è e non può essere un progetto, sia pure aperto, di ricostruzione della sinistra italiana, di ricomposizione dei suoi mediocri frammenti sparsi combinati con le eccellenze della mitica «società civile». La via obliqua per restaurare una formazione politica nazionale alla quale, probabilmente, alcuni di coloro che si sono schierati, in mancanza d’altro, sotto le insegne del giovane leader di Syriza aspirano. Una operazione di questo tipo non avrebbe alcuna ragione di parlare in greco. E infatti si tratta, o dovrebbe trattarsi, esattamente del contrario. Di sostituire, cioè, alla sinistra italiana, alle sue baruffe paesane e ai suoi galatei giustizialisti, una sinistra europea che tragga dalla scala stessa su cui opera la sua radicalità. Per dirla ancor più ruvidamente, bisogna impedire che la sinistra nel nostro paese si rifondi come «sinistra italiana», come riesumazione di questa salma.

Tutto ciò, sia chiaro, muove essenzialmente sul piano simbolico: nessuno dotato di buon senso può infatti immaginare che i rapporti di forza tra le oligarchie finanziarie e le popolazioni del vecchio continente possano essere modificati per via parlamentare (per di più trattandosi di un Parlamento, come quello europeo, sottoposto a rigidi vincoli e povero di poteri reali). E, tuttavia, l’occasione elettorale può rivelarsi un buon terreno sul quale cominciare a elaborare un pensiero e un linguaggio che separino definitivamente l’aspirazione alla trasformazione dei rapporti sociali dalla dimensione nazionale e dalle sclerotiche dinamiche politiche che vi si svolgono. Tanto maggiore sarà il valore della lista Tsipras quanto più riuscirà ad essere «non italiana» e, per certi versi, «antitaliana». E’ questo il solo vero antidoto alla riedizione degli «arcobaleni» e delle «rivoluzioni civili» in cui si è ultimamente esibita, con scarso successo di pubblico, la nostra commedia dell’arte politica. Uno strappo, insomma, nel tessuto «moderato» e miope della politica nostrana, forzandone riti, vincoli e confini. Uno strappo che Martin Schulz, bandiera di partiti largamente compromessi con il salasso liberista del vecchio continente, non potrebbe in alcun modo rappresentare.

Pensare la ricostruzione «sociale» e democratica dell’Europa come una sommatoria di successi delle sinistre nazionali (riesumando il mito, che anche Syriza fatica troppo ad abbandonare, dell’«effetto domino»), è un punto di vista che contraddice in pieno la dimensione globale e internazionalista nella quale la rivoluzione sociale era stata pensata prima che lo statalismo e il nazionalismo le imponessero il loro guinzaglio. Dopo le catastrofi che ne sono conseguite è a quella dimensione che dovremmo cercare di fare ritorno. Rileggendo in questa chiave la necessità dell’Unione europea. Come una necessità tanto indipendente dall’ordine «indiscutibile» dei mercati quanto avversa all’ordine disciplinare degli stati-nazione che lo asseconda anche quando fa mostra di denunciarne le pretese.

Tracciare questo orizzonte, smontare le demagogie nazionaliste, denunciare le complicità delle classi dirigenti nazionali con le oligarchie finanziarie è quanto si può chiedere a chi sceglie il terreno della competizione elettorale. Non è certo «uno spettro che si aggira per l’Europa», ma sarebbe già qualcosa.