Torno su alcune affermazioni di Francesco Renda in Liberare l’Italia dalle mafie, il dialogo con Antonio Riolo che Ediesse pubblica nel 2008. Dopo aver rilevato la duplice essenza della mafia (associazione criminale organizzata e sentimento, idea, consenso ovvero cultura), Renda dice che «il fenomeno dei rapporti mafiosi con la società, con la politica, le istituzioni e il potere non è, non può e non deve essere materia di azione giudiziaria, ma di azione politica allo stato puro». Meditiamo le conseguenze di questo assunto. Tra le altre una e non di poco momento: che il contrasto alla valenza criminale della mafia, quand’anche ottenga – e talora ottiene – rilevanti successi, non parrebbe in grado di scalfire o incrinare o ridurre la operante, estesa, costante presenza della cultura mafiosa in atto. Così come non parrebbe in grado di interdire o infrangere o circoscrivere le forme criminose che continuamente la mafia aggiorna e svecchia.

A questa stregua, volgendo lo sguardo al trentennio trascorso, non pare azzardato sostenere che l’azione giudiziaria consentita dall’articolo 416 bis approvato nel 1982, abbia colpito con successo attività delittuose perseguite da comparti mafiosi, se non al tutto socialmente obsoleti e culturalmente residuali, per certo arretrati rispetto alle inedite e cospicue attività messe a punto ed elaborate dalla rinnovate pratiche e culture mafiose nell’ultimo trentennio. Rami se non secchi, destinati a inaridirsi per essere alimentati o da fonti in via d’esaurimento o, in ogni caso, inadeguate a fornire l’alimento richiesto dalle dimensioni delle nuove imprese avviate. Un intervento di potatura, diresti, lasciato dalla mafia alle mani dello Stato, che potrà vantarsene, presentandolo come l’ammirevole e meritoria sua guerra alla mafia, alla sua organizzazione ed ai suoi presunti capi che, finalmente assicurati alla giustizia, restringe inflessibile «all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati», come disposto dall’art. 41 bis.

Scrive Renda che, diversamente, «i problemi da affrontare e risolvere sono il diffuso consenso e la rete di connivenze, di aiuti e di protezione che consentono alla criminalità organizzata di sviluppare la sua attività delittuosa e di resistere all’azione giudiziaria e all’usura del tempo». E continua, non nascondendosi che «un’opera del genere è assai vasta e complessa, e non è fattibile in breve tempo. Occorrono i provvedimenti legislativi e talune riforme della pubblica amministrazione, ma soprattutto è indispensabile una diffusa educazione civica, un impegno etico-politico, una nuova maniera di concepire i rapporti fra Stato, classi dirigenti e società civile». Una nuova maniera opposta all’usata maniera, storicamente consolidata.

Riflettevo, nella nota apparsa la scorsa settimana in questa rubrica, sulla natura (che la maniera ne stabilisce) degli attuali rapporti tra Stato e mafia «da intendersi, scrivevo, come relazioni determinate, operanti e attive nella fibra interna dell’organismo sociale e della sua crescita, non estranei all’assetto istituzionale, compresi nell’impianto statuale», riflessione svolta in sintonia con quanto Renda afferma relativamente alla liberazione dello Stato da tali rapporti che, dice, va intesa «come un’autoliberazione». A ragione dunque Renda indica la necessità di condurre una adeguata lotta alla mafia come la concertazione di un’azione politica allo stato puro.

Renda, contrariamente alle facili vulgate che circolano, sostiene che poco della mafia conosciamo e che «i misteri della mafia rimangono, tuttavia, sempre misteri, e finora se ne sono individuati solo un paio». Constatazione che rende assai arduo impostare una strategia efficace che si voglia davvero intesa all’annullamento del sistema mafioso in Italia. Sistema che, per molti rispetti si rivela inerente ad alcune (e delicate) articolazioni dello Stato. Così Renda della politica allo stato puro richiama una categoria classica: utopia. «Se vogliamo la liberazione dalle mafie, che adesso non c’è ma che vogliamo e speriamo di ottenere domani o dopodomani, necessariamente dobbiamo formularla adesso come nostra utopia, ossia come scopo da non conseguire al primo angolo della strada».