«Larger than Life», qualcosa che è «più grande della vita stessa». L’espressione che usa il mondo anglofono si attaglia perfettamente a certe figure nella storia delle arti musicali che sembrano racchiudere, nell’opera di una vita fatta di continuità quotidiana e acribia operosa, a testa bassa, qualcosa che è più e oltre la vita stessa e le possibilità offerte a una singola esistenza. Vale per John Coltrane, vale per Bob Dylan. Vale per Ennio Morricone, gran signore blasé delle note appena scomparso trovatosi, per fuochi incrociati del destino, a maneggiare per una vita pentagrammi esplicitamente dedicati al commento, alla sottolineatura, al rincalzo di quanto avveniva nelle immagini su uno schermo; ben al di là, nel pensiero musicale più profondo, delle pur nobili ragioni della «musica funzionale», quella che resta sullo sfondo dei grandi film, e si fa ricordare solo o per intermittenze o per casi clamorosi di presenza. Gli Oscar e i Nastri d’argento, per esempio.

UN ARTIGIANO
Ennio Morricone, più grande della vita stessa, con il suo aspetto borghese da tranquillo e occhialuto capoufficio di un ministero, appassionato scacchista, fuoco vivo di musica palpitante, si farà ricordare per decine di colonne sonore che hanno dato segno e senso alla storia del cinema, e sono entrate a capofitto nell’immaginario popolare di diverse generazioni. Ma l’uomo, e l’artista, non cominciano né finiscono lì. Come ci canta con quel grumo di note disseccate Dylan nell’ultimo e magnifico Rough and Rowdy Ways, citando Whitman, anche Ennio Morricone è stato uomo che, dentro di sé, ha «contenuto moltitudini», un rigoglio di presenze vitali che gli hanno fatto vivere, e stavolta citiamo Umberto Eco e la sua definizione della lettura, «cinquemila vite in una vita sola». Facendole vivere a noi di riflesso, in quelle macchine incantate inventate nel groviglio di tensioni laceranti del «secolo breve» che si chiamano cinema, colonne sonore, strumenti per la riproduzione della musica stessa.
Ennio Morricone, scomparso lo scorso 6 luglio, era nato a Roma nel 1928, un anno esatto dopo che, per la prima volta, il pubblico di un cinema nordamericano assistette in una sala di proiezione all’evento incredibile di un personaggio a due dimensioni, sullo schermo, che muoveva le labbra per cantare, al contempo facendone apparentemente scaturire suoni sincronizzati che viaggiavano nella sala. Il cantante era Al Jolson, il film The Jazz Singer. Inizio della fine per quelle maestranze della musica che, di fronte allo schermo, dovevano commentare in tempo reale quanto succedeva sullo schermo, interagendo le magre didascalie costellate di punti esclamativi enfatici. L’enfasi, da quel momento in avanti, sarebbe stata consegna, privilegio e dannazione per altre generazioni di musicisti: coloro che scrivono le colonne sonore. Una forma di altissimo artigianato musicale che quasi sempre va a allungare le ife delle idee nelle musiche d’arte, e viceversa: perché la comunicazione tra le due arti pratiche del Novecento ha sedimentato abbastanza storia, ormai, per dirci che si tratta di corrispondenze biunivoche. Senza l’idea dei valzer di Strauss ad accompagnare la rotazione placida di un’astronave nel silenzio assoluto cosmico nessun 2001 Odissea nello spazio. Senza una chitarra elettrica riverberata e solitaria che scandisce un frammento di arpeggio, e un fischio in lontananza nessun western. E, qui, grazie Ennio Morricone, per aver inventato quanto andava inventato, e seguendo la filologia stretta della parola: in-venio: andare in mezzo alle cose, fare inventario di quanto disponibile, e poi decidere di usarlo a prescindere. Anche se in nessuna Oklahoma City del 1860, o qualsiasi altra località da «wild west» vi venga in mente, è mai esistita una chitarra elettrica a sottolineare panorami calcinati e ghigni ieratici di cowboy bruschi.
Musica d’uso, e musica spesso meravigliosa, al contempo, costruita col preciso sentire dell’artigiano e della sua bottega che deve fare le cose per bene: perché, ed è una sua frase celebre, «nell’amore come nell’arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine o l’intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata». Perché, come ribadiva, «per prima cosa bisogna scriverla bene la musica. Il resto verrà». Lui la scriveva bene, e il «resto» veniva anche meglio: garantendo con sapienza all’orecchio la memoria futura di quanto l’occhio seguiva sul grande schermo, una sorta di esistenza autonoma che non certo tutta la musica funzionale ha o può aspirare ad avere. Lui quel pensiero l’aveva sfiorato, e qualche volta reso evidente: «Penso che quando fra cento, duecento anni vorranno capire com’eravamo, è proprio grazie alla musica da film che lo scopriranno». Perché poi il segreto che tale non è alla base, e facilmente intuibile, è sempre lo stesso: Ennio Morricone era un musicista che aveva avuto in sorte e per scelta una pluralità di esperienze, e con la fortuna straordinaria di viverle mentre certe musiche stavano nascendo o sviluppando, caoticamente e proficuamente, tutte le proprie e inesplorate possibilità.

ESPERIMENTI POP
Esiste un Ennio Morricone compositore sperimentale, incuriosito anche dalle tecnologie più avanzate, un Morricone giovane e radicale improvvisatore, ben conscio di quanto le avanguardie europee e il jazz stavano cercando di cavare fuori dal «clash» epocale tra culture musicali europee e africane, un Morricone compositore «classico» (quale che sia il significato che volete accorpare alla temibile parola). E poi un Morricone stregonesco autore di centinaia di colonne sonore, un Morricone che non aveva certo paura di frequentare i bordi più ordinari e «popolari» delle note: ad esempio la nascente musica «pop» italiana, che cercava di scrollarsi di dosso le eredità ingombranti delle romanze classiche e delle canzoni di Piedigrotta, dicendo dell’altro. E facendolo «sentire» con qualche aggraziato, spericolato trucco di arrangiamento.
Lui lo aveva saputo fare con la Mina di Se telefonando, con il Gianni Morandi di C’era un ragazzo che come me…, con il Gino Paoli evergreen, da quel momento in avanti, e per decenni, di Sapore di sale. Il giovane Morricone aveva studiato al Conservatorio di Santa Cecilia, la tromba era stato il suo strumento: un attrezzo per la musica che richiede, appunto, costanza e continuo esercizio, pena la «perdita del labbro», l’impossibilità di avere il proprio suono. Quasi una metafora fisica del modo di operare di una vita: costanza, esercizio, lucidità. Come quando, nella Roma appena liberata, raggranellava soldi suonando al night Florida per i marines. E sarà poi seconda tromba fissa nell’Orchestra del Teatro Sistina, dove passavano le compagnie di Walter Chiari, Carlo Dapporto, Renato Rascel, Wanda Osiris. Aveva studiato anche composizione, musica corale, strumentazione: tutto efficace outillage, attrezzatura teorica e pratica che gli tornerà utile per una vita di musica nei contesti e con gli organici strumentali più diversi.
Era stato allievo di Goffredo Petrassi, e la parabola creativa del longevo maestro, dal neoclassicismo iniziale alle forme più estreme di astrattismo sonoro – senza dimenticare che Petrassi fu anche prolifico autore di colonne sonore – marca significativamente il pensiero musicale di Morricone, per tutta la vita attratto sia dalla musica come puro, epifanico evento sonoro, sia dalle strutture più canonicamente cantabili e perfettamente in linea con la tradizione «ben temperata» dell’Occidente.
L’incontro col mondo delle pellicole era avvenuto presto, per Morricone, a ventisei anni. Era il 1955, lui lavorava già come arrangiatore per le orchestre di musica leggera e per la Rca, assieme a Luis Bacalov: piazzava belle idee e scintille curiose di eleganza nei brani Paul Anka, di Rita Pavone, di Mina, dell’angelo inquieto Chet Baker, alla sera però scriveva i «suoi» brani classici, quelli che la Rai, quando lo assume nel ’58 come assistente musicale non vuole proprio siano diffusi, pena la perdita del posto: Morricone ringrazia e se ne va. Era il suo primo giorno di lavoro. E i brani musicali «classici» di Morricone, a oggi, sono più di cento.

ANNI SESSANTA
I ruggenti e ingenui anni Sessanta sanciscono nella pratica la dimensione perfettamente dimidiata delle note scritte da Morricone: nella medesima tornata d’anni è il Morricone non ancora quarantenne ad arrangiare le colorate e sardoniche canzoncine estive di Edoardo Vianello (Pinne fucile ed occhiali, Guarda come dondolo, Abbronzatissima, Hully Gully) la «cantautorale» Sapore di sale, e il radicale membro del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza fondato da Franco Evangelisti. Un’esperienza di improvvisazione, tecnologia, confronto sulla ragioni stesse del far musica destinata a lunga vita, e a sua volta imprinting di esperienza per un paio di altre generazioni di musicisti-improvvisatori. «La musica che facevamo era improvvisata a partire da esercizi mirati: facevamo mesi e mesi di improvvisazione su parametri molto precisi, ci registravamo, la sera ci riascoltavamo e ci criticavamo. Era una cosa molto attenta», queste le parole di Morricone sul Gruppo, che a un certo punto arriverà a incorporare anche una metronomica sezione ritmica quasi rock e una chitarra elettrica, anticipando in The Feed-Back le atmosfere misteriose e immerse nell’iterazione variata dei lunghissimi brani a venire dei tedeschi Can e dei Neu!. Altri tempi davvero.
Ed è nello stesso caotico e proficuo periodo che Morricone comincia a collaborare con l’amico ritrovato, il suo compagno di classe delle elementari Sergio Leone, e con Bernardo Bertolucci. La prima colonna sonora che lascia il segno, e che sancisce l’inimitabile (e dunque imitatissimo) stile «alla Morricone» è quella di Per un pugno di dollari, 1964, primo della celebre «trilogia del dollaro» che inaugura lo spaghetti western, rinascenza di un genere ormai datato. E primo Nastro d’argento di una lunga, lunga serie per Morricone. A un immaginario paesaggio fisico western, teatro di pulsioni e sentimenti primordiali, ben impersonati nei tratti legnosi di Clint Eastwood e in quelli tormentati di Gian Maria Volonté fa da perfetto pendant l’invenzione della musica da nuovo western di Morricone: il «fischio» perfettamente intonato del maestro Alessandro Alessandroni, un marchio di fabbrica mitizzato, da lì in avanti, il coro epicheggiante che acuisce la tensione salmodiando We Can Fight, e su tutto la chitarra elettrica riverberata, prima volta che si osa tanto, su un film «di genere». Poi arriveranno Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo, C’era una volta il West, Giù la testa, C’era una volta in America: in ognuno c’è un’invenzione timbrica tanto semplice quanto dirompente, frutto di una formidabile capacità di cogliere con antenne speciali nel «soundscape» che lo circonda spunti di imprevedibile efficacia. Magari decontestualizzando uno strumento e re-inventandone il ruolo nella tessitura, aggiungendo echi dove echi non dovrebbero essercene, facendo sgorgare all’improvviso, dal silenzio, fiotti melodici irresistibili memorabili già al primo ascolto.

IL SEGRETO
Il segreto della melodie «catchy», a presa rapida, di Morricone, frutto di una grande memoria pucciniana, replicato (mai fotocopiato ) in centinaia di film. Un lavoro indefesso che gli vale il Leone alla carriera nel 1995, alla 52a mostra del cinema di Venezia, primo compositore a meritare tale riconoscimento. Per parecchi anni Morricone «sfiora» l’Oscar, anche se fioccano altri premi importanti (oltre sessanta, nella sua vita): ad esempio per la magnifica traccia sonora che regge Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, nel ’90. L’Oscar arriverà, alla carriera, nel 2007, con una standing ovation in sala cui risponde con signorile understatement, la sua cifra stilistica di una vita: «Credo che questo premio sia per me non un punto d’arrivo, ma un punto di partenza per migliorarmi al servizio del cinema e anche al servizio della mia personale estetica sulla musica applicata».
Nel 2016 un altro Oscar: stavolta è per un solo film, il durissimo noir western e psicologico di Quentin Tarantino The Hateful Eight: invece di inseguire l’eco degli spaghetti western di mezzo secolo prima, Morricone, corteggiato senza fortuna da Tarantino almeno da un decennio, registra ai «beatlesiani» Abbey Road Studios una partitura severa, tenebrosa e avvolgente, densa di suggestioni tardo romantiche: «Ho sempre cercato di cambiare la mia fantasia del western. Tarantino mi ha lasciato fare quello che volevo, e io ho fatto tutt’altro». Ad esempio usare una grande orchestra, quella che non aveva potuto avere in Per un pugno di dollari, trasformando il limite in punto di partenza per nuove idee. Perché Morricone, appena ha potuto, ha inseguito sempre un «grande altro», mai la replica di sé stesso. Ad esempio amando smodatamente il momento della composizione per film di fantascienza: «Le colonne sonore che preferisco: scrivo musica astratta, quasi “senza senso”. Inseguo un timbro. Un suono. Preferisco quella musica piuttosto che fare la musica strappacuore».
Forse, però, è proprio l’altalena tra lirismo estremo e pura ricerca la cifra che lo ha fatto amare: vedi alla voce John Zorn, ad esempio, che a Morricone ha dedicato un intero e riuscito progetto discografico. Ma i fan li ritrovate a fiotti, e a sorpresa, nelle note popular: i Motörhead e i Dire Straits, i Clash e Springsteen, Metallica, Muse e Ramones. Ha scritto il jazzista, didatta e autore di colonne sonore Pietro Leveratto, ricordando Morricone: «Nel paesaggio sonoro che abita la memoria musicale del secolo scorso ci sono alcuni luoghi nei quali torniamo volentieri; magari si tratta solo di un frammento di tre note o il suono di uno strumento che resta con noi a prescindere dal gusto personale, dalle idiosincrasie o dalla passione. Mentre scrivo sento risuonare l’incipit del fagotto nella sagra della primavera, lo strumming a corde aperte della chitarra nella prima battuta di A Hard’s Day Night, gli accordi lunari coi quali Bill Evans richiama l’ingresso del sestetto di Miles Davis in So What; ognuno di noi ha i propri, privati quanto condivisi con milioni di altre persone; suoni che ci arrivano persino prima della riconoscibilità di una linea melodica o dei percorsi dell’arrangiamento e dell’elaborazione compositiva: sono la manifestazione della personalità del suo autore, l’orma lasciata sul terreno dell’ascolto. Molte delle intuizioni musicali di Ennio Morricone, il cui genio si era nutrito tanto della grande musica del passato quanto di quella che lo ha circondato nella sua lunghissima carriera, sono rese esplicite anche dalla sua capacità di inventare coi timbri degli strumenti e riuscire a meravigliarci ascoltando il fischio di un uomo, una tromba solitaria, un’orchestra di archi densa come la foresta amazzonica. Inauditi fino al momento nel quale il Maestro li ha fatti propri per poi regalarli a noi tutti».
Ennio Morricone era presidente onorario dell’Associazione compositori musica per film, presieduta dal musicista e compositore Pivio (al secolo Roberto Pischiutta), che così ricorda il Maestro: «Ho avuto modo negli ultimi anni di frequentare il Maestro Ennio Morricone avendo lui aderito con entusiasmo ad ACMF, l’associazione Compositori Musica per Film, di cui è stato presidente onorario. Perdiamo un punto di riferimento, non solo musicale, pieno di genialità e passione, ma potremo sempre contare sulla sua musica immortale, un’eredità che non ci abbandonerà mai».
Nel gennaio scorso, giusto un mese prima che iniziasse il lockdown che ha rinchiuso l’Italia Morricone ha fatto in tempo a salutare la Penisola, idealmente, suonando con la sua orchestra al Senato. L’ultimo, struggente regalo inedito di Ennio lo ascolteremo ad agosto all’inaugurazione del nuovo ponte di Genova disegnato e regalato alla città e al paese da Renzo Piano: sono quattro minuti di un’intensità quasi dolorosa di Requiem per le vittime. In fin dei conti, per tutta la sua vita Morricone è stato un costruttore di ponti musicali. Non di muri dove mortificare passioni e intelligenza.