Prima ancora di Rosa Park, la sarta di Montgomery che un bel giorno si rifiutò di cedere il proprio posto a un bianco su un mezzo di trasporto pubblico, o di mostri sacri come Martin Luther King e Malcolm X, un posto d’onore nel variegato palmares degli eroi della lotta antirazzista in America spetta di diritto a Willie Reed, il giovane mezzadro che nel 1955 testimoniò in uno dei processi simbolo della battaglia per i diritti civili della comunità afro-americana: quello agli assassini di Emmett Till, il quattordicenne rapito, torturato e linciato nel 1955 in una cittadina del Mississippi.

Il suo corpo, sfigurato e legato con il filo spinato, fu gettato nel fiume e ritrovato dopo tre giorni. Era stato giudicato colpevole di aver fischiettato a una ragazza bianca all’interno di una drogheria, un affronto mortale in una zona degli Stati Uniti dove i neri non avevano il permesso di prendere l’iniziativa e rivolgere per primi la parola a un bianco, né tantomeno di guardarli negli occhi.
Reed, che all’epoca aveva 18 anni e faceva il mezzadro, vide Emmett poche ore prima della sua morte, mentre lo portavano via. Ebbe la forza di presentarsi a sorpresa al processo e puntare il dito contro gli imputati, tutti bianchi, rischiando la vita. Gli accusati furono assolti, in una delle pagine più nere della giustizia americana, mentre Reed fu costretto a cambiare nome e per 60 anni rimase nascosto in uno sconosciuto pueblo dell’Illinois.

Specialità della casa

Leggo della sua morte, avvenuta all’età di 76 anni, il giorno del mio arrivo a Oxford, una delle più raffinate small town d’America, elegante énclave universitaria con una storia turbolenta alle spalle. Seduto alla Bottletree bakery, principale luogo di ritrovo degli studenti universitari, tutti diligentemente in fila in attesa di provare la specialità della casa, sublimi e soffici bagle farciti in oltre 50 modi, sfoglio i giornali locali. Reed viene ricordato con ammirazione, in un momento in cui le tensioni razziali sembrano tornare d’attualità. La sua storia è più volte salita alla ribalta negli ultimi tempi e da alcuni paragonata a quella di Trayvon Martin, il ragazzo afroamericano disarmato ucciso in Florida da un colpo di pistola sparato da una guardia volontaria, successivamente assolta.
Nonostante la sua atmosfera liberal, le ariose librerie dalle ampie vetrate che affacciano sulla piazza e le sofisticate serate concertistiche che animano il weekend, Oxford, così chiamata dai coloni nella speranza che vi fosse costruita l’università, ha un passato legato alla questione dei diritti civili difficile da dimenticare.

Nel 1962 un giovane nero uscito a pieni voti dal college si iscrisse all’Università del Mississippi, dopo aver vinto una causa per discriminazione razziale davanti alla Suprema Corte contro la stessa università, che si era opposta al suo ingresso. Non era la prima volta che un afroamericano veniva ammesso in un college o in altre università per bianchi del Sud, ma qui ad “Ole miss”, come tutti chiamano questa università fondata nel lontano 1848, nessuno aveva mai ipotizzato di poter subire una simile umiliazione. Così il giorno in cui Meredith si presentò al campus dell’University of Mississippi si trovò a sbarrargli la strada un gruppo composito di 2mila studenti oltre a buona parte di una popolazione inferocita. Per sedare le contestazioni J.F.Kennedy fu costretto a spedire ad Oxford gli agenti federali, ma la rivolta provocò la morte di 2 giornalisti, oltre cento arresti, molte polemiche e una crisi istituzionale tra lo Stato del Mississippi e il Governo Federale. Le continue tensioni però non impedirono al ragazzo di finire il suo percorso di studi e diventare un piccolo eroe locale, come dimostra una statua di ferro in suo onore eretta all’interno del campus. Oggi l’Università del Mississippi conta poco meno di 20 mila iscritti e le minoranze rappresentano quasi un quarto del corpo studentesco. Qui, non a caso, nel 2008 fu organizzato uno dei 3 dibattiti presidenziali tra il futuro presidente Obama e l’allora candidato repubblicano, John McCain.

Università di Oxford, 1962. James Meredith entra nell'ateneo scortato dagli agenti federali
Università di Oxford, 1962. James Meredith entra nell’ateneo scortato,[object Object],dagli agenti federali

 

L’altro motivo del mio passaggio a Oxford si chiama William Faulkner. L’abitazione familiare dove lo scrittore americano amava rifugiarsi di ritorno da Hollywood, «un posto dove un uomo può venire pugnalato alle spalle mentre sale una scala», è in posizione centrale ma nascosta all’interno di un seducente bosco di cedri. Rowan Oak, questo il nome dell’elegante dimora di due piani, è una tipica residenza del vecchio Sud con il colonnato candido e il giardino pieno di alberi, aperta agli sparuti visitatori incuriositi di osservare vezzi e abitudini casalinghe di un Premio Nobel. Come in altre case di celebri personaggi, tutto è rimasto immobile nel tempo: dalla macchina da scrivere Underwood del 1940, ai fucili di caccia in camera da letto fino alla teca di vetro al cui interno si trova ancora una bottiglia di Four Roses bourbon.

Implacabile sudista, ferocemente contrario alla segregazione razziale, definita la «vergogna» del Sud, ma al tempo stesso pronto a combattere contro nuovi tentativi di moralizzazione da parte delle forze nordiste, Faulkner ha avuto lo straordinario merito di riuscire a descrivere in maniera tragica il declino dell’aristocrazia, e il tentativo di scalata dei nuovi ceti sociali borghesi, attraverso la vicenda di un remoto e oscuro angolo del Sud. «Mostrare il terrore in un pugno di polvere», avrebbe detto T. S. Elliot. Eppure da queste parti la grandezza dell’autore non è mai stata apprezzata fino in fondo. Volendo dare ascolto ai pettegolezzi più antipatici, ha scritto l’etnomusicologo Alan Lomax di passaggio a Oxford, si potrebbe sostenere che Faulkner «non era nemmeno lo scrittore più dotato in famiglia» e che suo fratello John fosse molto più raffinato di lui. Pettegolezzi a parte, non si può dire che William Faulkner sia entrato nel cuore della comunità locale.

A Oxford l’idolo indiscusso si chiama Archie Manning, per 3 anni, dalla fine dei Sessanta agli inizi dei Settanta, quarterback dell’amatissima squadra universitaria Ole Miss. «Il miglior quarterback che il college abbia mai visto», ripetono in coro. Talmente amato che nel campus il limite di velocità è fermo a 18 miglia, il numero che Manning portava dietro la maglia.
Per dirigermi nel deep south, il profondo Sud degli Stati Uniti, da Oxford seguo la Natchez Travel Parkway, una magnifica scenic road che congiunge Nashville a Natchez collegando il Mississippi River con il fiume Cumberland. Prima dell’avvento dei battelli a vapore questa era la principale via di comunicazione che collegava l’Est agli avamposti del Mississippi. La prima sosta è a Vicksburg, un luogo che profuma di aristocrazia e paternalismo, eleganti dimore ottocentesche e antichi localismi. Qui tutto rimanda a un passato che non esiste più. «Vicksburg is the key» ripeteva insistentemente Abramo Lincoln, primo presidente Repubblicano della storia degli Stati Uniti, a suoi collaboratori, consapevole dell’importanza strategica di questa piccola cittadina fondata nel 1811 e posizionata su un alto promontorio che affaccia sul Mississippi; dunque essenziale per gli Unionisti, che avevano bisogno di conquistare l’intero corso del “Grande Fiume” e tagliare in due il Sud. A Vicksburg si svolse una delle battaglie cruciali della Guerra di Secessione americana, che mise la parola fine al sogno indipendentista degli Stati confederati. La città capitolò il 3 luglio del 1863, dopo un durissimo assedio durato ben 43 giorni, al termine del quale le truppe sudiste si arresero alla strapotere nemico e all’intelligenza militare della campagna ideata del generale Grant.

In questa zona economicamente depressa gran parte del turismo ruota intorno a questo evento, a cominciare dal National Military Park, immenso polmone verde cittadino trasformato in un parco militare dove gli appassionati di storia accorrono per ripercorrere le tappe chiave dell’assedio. Da un punto di vista strettamente finanziario, però, la speranza di restare a galla è legata al business dei casinò, grazie a una legge del 1992 che ha autorizzato il gioco d’azzardo sull’acqua. Nel solo Mississippi si contano 34 case galleggianti, che danno lavoro a 23mila persone e hanno un giro d’affari di 3 miliardi di dollari (2012). Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di squallide strutture che fanno il verso ai vecchi casinò sui battelli fluviali a ruota che si possono trovare nei romanzi di Mark Twain; solo che nel XXI secolo sono gestiti da grandi gruppi immobiliari e da società specializzate che si sono fatte le ossa a Las Vegas.

Il famigerato catfish

Dopo aver assaggiato il famigerato catfish, uno dei vanti della gastronomia locale, per la verità dal leggero retrogusto fangoso, riprendo la Natchez Trace Parkway fino a Natchez, una sofisticata cittadina abitata da una folla cosmopolita che tiene insieme intellettuali liberal e conservatori repubblicani, entrambi attirati da quella southern hospitality che qui è molto di più di uno stile di vita. In poche altre parti degli Stati Uniti sarete infatti accolti in una splendida dimora ottocentesca da tanto entusiasmo e da uno zuccherato bicchiere di whiskey, da sorseggiare in tutta tranquillità in un superbo patio con vista sul Mississippi mentre il padrone di casa prova a spiegarti, in un inglese incomprensibile, l’antica storia della sua mansion. Una delle quasi 700 dimore pre-war, che rendono Natchez un posto speciale, sopratutto per gli amanti dell’architettura Greek Revival, lo stile più spesso associato con il Sud prebellico.

Curiosa è la storia di Natchez, che è anche il più antico insediamento sul Mississippi. Originariamente fondata dai coloni francesi nel 1716, per molti anni, a cavallo tra ‘700 e ‘800 Natchez è stata la capitale commerciale dell’industria del cotone, la città dell’aristocrazia fondiaria e mercantile, il posto dove vivevano più milionari che in qualsiasi altra parte di America. Parallelamente a questa sofisticata città sulla collina se ne sviluppò un’altra lungo la riva del fiume, più popolare e alla mano, per usare un eufemismo. Conosciuta con il nome di «Natchez under the hill», questa sub town si guadagnò presto la fama di essere uno dei posti più pericolosi di tutto il Mississippi, terreno prediletto per gamblers, contrabbandieri e bari di ogni sorta. «Natchez under the Hill funzionò da camera di compensazione per la cultura popolare del fiume – spiega Mario Maffi in Mississippi – luogo di raccolta e dispersione prima dell’arrivo nel grande laboratorio di New Orleans, in cui l’universo dei battellieri trovava modo di esprimersi senza freni, dopo il lungo e arduo viaggio giù per l’Ohio e il Mississippi». Una città nella città, talmente scandalosa che per spazzarla via si rese necessaria tutta l’irruenza del Mississippi, che intorno alla metà dell’ottocento si mangiò centimetro dopo centimetro tutta la riva del fiume.

Percorro Silver Street fino alla vista del fiume. Sullo sfondo le deboli luci al neon dell’immancabile casinò galleggiante “Isola of Capri”. Dell’antica città del vizio non è rimasto nulla, eccetto un modesto ristorante e un saloon che ha quasi 300 anni e un aspetto vagamente tetro. Ma che resta il posto migliore per ordinare da bere e aspettare che uno degli avventori locali venga a raccontarti, dopo un’iniziale diffidenza, qualche improbabile storia. Come quella dei fratelli Harpe, famosi nei primi dell’Ottocento per aver derubato e torturato molti dei viaggiatori che si avventuravano lungo la Natchez Trace, il percorso utilizzato dai coloni che cercavano fortuna all’Ovest. Uno dei due fratelli, non è dato saper quale, venne in seguito catturato e decapitato, e la sua testa fu appesa lungo la strada come monito per altri assassini. Ma pare che il suo spirito ogni tanto faccia ancora capolino da quelle parti.

(3 – continua)