Gli autisti di Uber non sono dipendenti ma lavoratori indipendenti. Lo ha affermato il giudice distrettuale di Filadelfia Michael Baylson. Al già lungo elenco di sentenze contraddittorie negli Stati Uniti su uno dei problemi nodali del capitalismo digitale, ieri si è aggiunta quella di una corte federale e non statale.

Non ci sarebbe un rapporto di dipendenza perché il controllo che Uber opera sugli autisti del servizio UberBlack è «troppo debole». Gli autisti devono sottostare a obblighi inferiori, possono lavorare e riposare quando vogliono. Gli avvocati degli autisti hanno già annunciato appello, com’è accaduto nel caso dei fattorini di Foodora dopo la sentenza di primo grado a Torino. La battaglia sullo status di lavoratori “parasubordinati” – più che “subordinati” – è fondamentale nella “gig-economy”, l’economia dei “lavoretti” attraverso le piattaforme digitali.

Per i lavoratori essere riconosciuti come dipendenti parasubordinati può offrire la possibilità di avere una retribuzione minima, ferie pagate, e contributi. Ad oggi, invece, sono considerati “lavoratori autonomi” che prestano occasionalmente la propria opera “on demand”, ovvero quando vogliono o l’azienda lo richiede. Tutte le spese, oltre che le tutele previste in un rapporto di lavoro, sono a loro carico. Considerando l’entità media dei loro guadagni questa attività spesso può trasformarsi in una condizione paradossale: devono pagare per potere lavorare secondo le regole stabilite dalle piattaforme.