Dei tre studi che Tullio Gregory raccoglie nel 2016 in Michel de Montaigne o della modernità pubblicato a Pisa presso le Edizioni della Normale, il terzo è dedicato a Il tema della fortuna in Montaigne. «La parola fortuna che ricorre tanto frequentemente nei suoi Essais», scrive Gregory, «veicola un tema antico, più volte ripreso nella cultura rinascimentale, che in Montaigne rappresenta l’esito estremo della spietata critica del proprio tempo e della presunzione umana».

Argomento che ricorre, al tempo di Montaigne, dal De Fortuna di Giovanni Pontano ad inizio del secolo, al Principe di Machiavelli. Bene lo testimonia, tra l’altro, l’iconografia della Fortuna quale si viene appunto codificando, nel corso del Cinquecento, ad opera di Alciato (Emblemi, 1531 e 1546), di Vincenzo Cartari (Le imagini de li dei de gli antichi, 1556, 1566 e 1571), di Cesare Ripa (Iconologia, 1593 e 1603).

È agevole constatare, anche ad un sommario esame, come le varianti degli attributi e simboli che contrassegnano l’immagine della Fortuna, tutti siano intesi a dar conto di un «continuo moto»: così si legge nell’Iconologia di Ripa. Un moto incessante e senza direzione stabile: per tanto, apprendiamo, la Fortuna «si dipinge cieca comunemente da tutti gl’autori gentili, per mostrare che non favorisce più un uomo che un altro». E quanto di bene e di male la Fortuna di continuo dispensa, cade in disordine da una sua cornucopia, lei, bella «donna sopra una nave senza timone, e con l’albero e la vela rotti dal vento»; o «a sedere, che si appoggia con il braccio destro sopra una ruota».

Cartari la designa «governatrice delle cose di quà giù, nelle quali non è fermezza ò stabilità alcuna più di quello si può dire habbi una Nave fluttuante nelle instabili onde marine». Le cose di quà giù, certo, ma non senza che il disordine che le rimesta non abbia una relazione con influssi che cadono dagli astri a sancire come ineluttabili gli atti irragionevoli, ingovernabili, della «Dea mutatrice de’ Regni, e sùbita volgitrice delle cose mondane», come la dice Ripa.

Conducendo la sua puntuale, perfetta indagine sul tema della fortuna in Montaigne, Gregory pone in evidenza che lo «stile ondeggiante, volubile, dagli aspetti più diversi è come il rispecchiamento dei volti sempre diversi della fortuna; la stesura stessa degli Essais è tutta legata alle occasions che la fortuna gli offre: ‘io prendo a caso (de la fortune) il primo argomento. Tutti mi vanno ugualmente bene’».

E, riflettendo sul primo capitolo del Livre II, Dell’incostanza delle nostre azioni, Gregory nota come questo sia «un testo esemplare della scrittura di Montaigne: le inclinazioni, l’andar come nel mare ‘trasportato’ secondo il vento delle ‘occasioni’, l’instabilità delle posizioni, la confusione, le cento facce delle cose, il caso, sono tutte espressioni diremmo ‘autobiografiche’, che evocano le stesse caratteristiche del ‘moto incostante e diverso della fortuna’».

La scrittura di Montaigne, dunque, si muove ed incede secondo l’andamento medesimo «naturale e consueto», flusso e riflusso, che la fortuna imprime alle vicende dei singoli e delle società. Ne vuol essere un consapevole rispecchio.

Accanto alla dimensione introspettiva (rammentando l’avvertimento di Montaigne al lettore: «sono io stesso la materia del mio libro»), sarà da parte nostra dimostrazione di saggezza, meditare su quanto Gregory argomenta, non senza un attendibile raccordo con la temperie storica del nostro secolo, intorno alla conformazione sociale, alle fortunose ‘regole’ del consorzio civile sulle quali l’acuto sguardo di Montaigne non cessa di indagare.

«Non a caso il tema della fortuna domina quelle pagine ove più radicale si esprime la sua convinzione di essere in un secolo ‘di male e di minacce’, ‘incapace di guarirsi’, retto dalla finzione e dall’inganno, dall’impostura politica e religiosa, senza alcun lume di ragione, ove prevale la folla, ‘la turba stupida, bassa, servile, instabile e continuamente fluttuante nella tempesta delle diverse passioni che la spingono e la risospingono, dipendente in tutto da altri’, vittima del costume, male radicale in quanto complesso di miti e pregiudizi che costituiscono ormai il fondamento, anzi la vera natura, della società europea».