Era il 20 febbraio quando ancora The Donald affermava che «In appena tre anni, abbiamo fatto a pezzi la mentalità del declino americano».
Era stata la sua piattaforma, vincente su una parte dell’elettorato (mentre l’altra, lo sappiamo, avrebbe votato chiunque pur di liberarsi di Hillary e dell’establishment democratico) ed era ciò che stava accadendo: posti di lavoro in più, tasso di disoccupazione sceso ai minimi da cinquant’anni, PIL in crescita e persino salari, soprattutto quelli più bassi, debolmente in aumento. Se la povertà non era diminuita, tra neri e immigrati recenti, la ricchezza delle famiglie era aumentata – sì, ma quali? Quelle più ricche! – ed era tutto sommato vero che l’economia stava andando bene. Merito di Trump? No, certo, ma lo sappiamo, al rendez vous elettorale tutto fa brodo.
Poi, però, è arrivata la pandemia e una peggiore figura la Casa bianca non la poteva fare.

È VERO CHE MOLTO hanno pesato una sanità in larga parte privatizzata e una società altamente disuguale, dove i più esposti al contagio sono anche i ceti più deboli, poveri e marginalizzati. E una polarizzazione sociale e culturale che non ha fatto che aggiungere ai problemi strutturali una reazione scomposta e, in ultima analisi, suicida.
E la pandemia ha mandato in frantumi l’economia, per i suoi effetti pesanti su domanda, redditi e occupazione. A cui si è aggiunto il mancato (nuovo) sostegno da parte dell’Amministrazione centrale, per l’insipienza del Congresso e l’ottusità del Presidente. Se persino il Wall Street Journal e gli analisti di Wall Street oggi guardano con preoccupazione all’assenza di un nuovo «stimolo» e se persino taluni big dell’establishment economico fanno appello alla ragione, prefigurando sfracelli se il governo non corre presto ai ripari, vuol dire che qualcosa si è incrinato davvero tra il G.O.P., The Donald e la parte «che conta» della nazione.
Se guardiamo alle cose da vicino, tuttavia, già dalla fine del 2019 le cose non si stavano mettendo tanto bene. La fine del ciclo si stava avvicinando, si diceva, una recessione, ancorché debole, era alle porte, ed erano le politiche di Trump ad essere messe sotto accusa.

DONALD TRUMP era stato eletto professando che liberalismo economico e multilateralismo andavano superati, promettendo di eliminare i trattati commerciali e ridare vita alla manifattura, non considerando che questa contribuisce solo per il 20% al PIL americano. «Basta con la globalizzazione che fa emigrare le nostre imprese, basta con l’importazione dai nostri concorrenti (e nemici)». Ma il protezionismo, per un’economia come quella americana, è peggio dei mali che vuole curare. Stracciare gli accordi, questa era la soddisfazione che The Donald voleva prendersi per, magari, ravvivare l’industria del carbone locale e ricevere l’applauso dei suoi operai malati di silicosi.

COSÌ, NEI TRE ANNI pre-pandemia, l’80% dell’economia americana aveva rallentato, compensata da un’occupazione crescente nei lavori precari e nei servizi – pur nel calo del prodotto – e dalle sue compagnie high-tech. E le guerre commerciali avevano messo in ginocchio agricoltura e manifattura, sgretolando catene del valore globalizzate e consolidate.
E, ora, voilà America! La pandemia non ha che fatto presentare il conto, moltiplicato per cento. Il calo del PIL del secondo trimestre è stato di oltre il 30%, mai visto prima. Lo stock market – quello a cui guarderebbe The Donald – non era mai stato così erratico come negli anni della sua presidenza e ora naviga a vista. E poi, pur con una disoccupazione al minimo, i posti di lavoro creati durante la presidenza Obama erano stati molto di più, in numero e in proporzione, e i salari già erano in costante aumento da prima di Obama. Insomma, The Donald non ha fatto nulla «in più», ha solo peggiorato le cose dove poteva e poi, persa la testa durante la pandemia, ha fatto patatrac.

Donald Trump l’incendiario aveva sì acceso gli animi di una certa «working class» – per lo più bianca, maschile, degli hinterland de-industrializzati, insomma quella dei penultimi, non degli ultimi, della scala sociale di una delle società avanzate più disuguali del pianeta, facendo loro credere che tariffe e muri avrebbero portato nuovo benessere e tenuto il mondo «alla larga». Quella working class tra le cui fila le «morti per disperazione» – per droga, alcool, incidenti d’arma da fuoco e suicidi – sono diventate un problema tutto americano. Dove perdita del lavoro, dello status, nell’abbandono delle pianure e delle periferie, avevano alimentato il voto per uno che prometteva avrebbe rimesso le cose a posto.

ORA CHE PERÒ le cose non sono a posto per niente, la frustrazione e la rabbia alimentano la frattura sociale.
E Donald Trump, in un’involuzione che ha del vertiginoso, sansonica, alimenta lo spettro della «guerra civile» per chiamare all’appello i suoi «forgotten men».
L’establishment che era dalla parte sua gongola, perché comunque la ricchezza dei più ricchi, anche nel 2020, non ha fatto che aumentare. Eppure, lo psycho-presidente non ha fatto l’America grande e ora la maggiore economia del pianeta, in ginocchio, aspetta di vedere se andrà tutto a rotoli o si potrà tornare a credere nell’American Dream che l’insipienza dei democratici di tutto il mondo (inclusi i nostri) aveva creduto di poter far camminare sulle gambe del neo-liberalismo. Perché, come già cantò John Prine, l’appartato cantore della working class americana anche lui caduto per Covid-19, «Your flag decal won’t get you into heaven anymore» (L’adesivo della tua bandiera non ti porterà in cielo).