Nel Palazzo c’è chi lo chiama «svuotacassetti». Si allude al Recovery Plan italiano, del quale si è persa traccia. Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Gualtieri, certo, ci stanno lavorando. I contatti con il capo dello Stato, in agosto, sono stati continui. Ma l’idea di coinvolgere il parlamento e il Paese, le forze politiche e quello sociali, non li sfiora. Si lavora in gran segreto. Qualcosa però trapela e si parla appunto di cassetti svuotati un po’ in tutti i ministeri. Sarebbero addirittura 500 i dossier tirati fuori dalle scrivanie, ipotesi di interventi accumulatesi nel corso del tempo, e rispolverate acciocché arrivino poi, ben impacchettate, a Bruxelles.

Non che ci sia troppa fretta. I progetti vanno sottoposti al vaglio della commissione entro l’aprile del prossimo anno, a partire dal 15 ottobre. La commissione si esprimerà al massimo in otto settimane, poi la parola passerà al Consiglio europeo. Il verdetto finale arriverà dopo altre quattro settimane, a maggioranza qualificata. La prima erogazione, il 10% del Next Generation Eu, dunque per l’Italia circa 20 miliardi, arriverà probabilmente a fine giugno per poi procedere di sei mesi in sei mesi. Ma l’Italia deve fare prima. Il commissario europeo Paolo Gentiloni ha gelato molte speranze chiarendo che i fondi non arriveranno appunto prima di giugno e che comunque non potranno essere adoperati per la riforma fiscale. Ma il sogno di ottenere un anticipo, prezioso come l’ossigeno per l’Italia, resta e imporrebbe di fare presto.

Ma anche di fare bene. Le condizioni per ottenere il semaforo verde ai vari progetti che comporranno i piani nazionali devono ancora essere definite nei particolari. Quel che è già stato sancito nel giugno scorso, però, lascia intravedere un percorso tutt’altro che semplice. Sono infatti elencati sette requisiti precisi.

Ogni progetto dovrebbe «affrontare efficacemente» i problemi specifici indicati per ogni Paese nelle Raccomandazioni della Commissione europea e in particolare le transizioni «verde e digitale». Dovrebbe inoltre avere «impatto duraturo», rafforzare la crescita, creare posti di lavoro, rinsaldare la coesione sociale e quella territoriale. Gli ultimi tre criteri sono i più concreti. Riguardano la valutazione dei costi previsti e dei tempi preventivati nonché l’efficacia delle misure previste nel Piano per l’attuazione delle necessarie riforme, sempre suggerite, presumibilmente, dalla Commissione.

È ovvio che molto dipenderà dalla benevolenza con la quale gli esaminatori passeranno al pettine i progetti. Quella della Commissione dovrebbe essere garantita, senza che ciò equivalga al permesso di adoperare il Recovery Fund a propria discrezione. Lo scoglio del Consiglio europeo, cioè dei singoli Stati, è però un ostacolo meno facilmente sormontabile. Affastellare progetti ripescati dagli archivi dei vari ministeri non basterebbe di certo. Anche nelle ipotesi più rosee e senza contare la possibilità che le divisioni nella maggioranza rallentino il percorso ci vorrà del tempo. La speranza di poter accedere in anticipo a una parte di quei fondi è dunque quasi certamente un miraggio.

Tirare avanti per quasi un anno nella situazione data, però, non sarà un gioco. Le audizioni degli ultimi giorni in parlamento hanno in realtà delineato un quadro fosco. I commercianti hanno detto chiaramente che i bonus non sono bastati a rilanciare i consumi. È stato evocato apertamente lo spettro di un downgrade che renderebbe i titoli italiani spazzatura. Il deficit ricade quasi esclusivamente sul settore privato, che dunque versa in situazione ben peggiore di quanto i dati attestino. È questa la vera e difficilissima sfida che il governo ha di fronte.