«P[/ACM_2]orsaidi,Iskenderani, Ismaili»: è la canzone pop con cui gli egiziani festeggiano l’elezione del nuovo dittatore, l’ex generale Abdel Fattah Sisi. Caroselli e assembramenti hanno accompagnato la chiusura dei seggi con i primi dati della Commissione elettorale che suggellano la vittoria annunciata di Sisi con il 93% dei voti. Il generale in abiti civili avrebbe superato il 90% in tutti i governatorati, tranne a Kafr al Sheikh, città natale di Hamdin Sabbahi, dove il debole rivale ha ottenuto poche centinaia di voti in più del nuovo faraone. Il nasserista, che ha subito ammesso la sconfitta, sarebbe arrivato addirittura terzo, fermo al 3,5%, con un 4% di schede bianche. Il risultato evidenzia quanto la candidatura di Sabbahi sia solo servita all’ex ministro della Difesa per legittimare la sua elezione.

Un plebiscito che nasconde molte ombre. Prima di tutto la bassa affluenza. La Commissione elettorale riferisce del 47% degli aventi diritto che si è recato nei seggi, con 25 milioni di votanti su 54. In assenza della capillare rete di supervisione del voto, disposta alle precedenti elezioni dalla Fratellanza, è molto difficile verificare il dato. Addirittura il Centro studi di opinione (Takamol Masr) ha riportato un’affluenza ferma al 7,5%. Secondo la campagna a sostegno di Sabbahi, meno del 25% degli aventi diritto si sarebbe recato a votare. Anche se venisse confermato il dato della Commissione elettorale, si tratterebbe di un numero infinitamente più basso di voti rispetto a quanti l’ex militare si attendeva. In una recente intervista, Sisi aveva assicurato che avrebbe ottenuto oltre 40 milioni di suffragi.

Proprio per la bassa affluenza, il voto è stato prolungato per un terzo giorno lo scorso mercoledì. Democracy International, think tank Usa, ha criticato la decisione di estendere le elezioni come «l’ultimo di una serie di passi che ha danneggiato la credibilità del voto». Ha rincarato la dose l’avvocato Adel Ramadan, dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr): «Se fossi stato al posto dei giudici nei seggi e mi avessero chiesto di estendere di un giorno le operazioni di voto, avrei chiesto di fermare tutto e procedere allo spoglio delle schede», ci ha detto Ramadan.

Alle presidenziali del 2012, le più plurali insieme alle parlamentari dell’anno precedente, si recò nei seggi il 52% degli aventi diritto. Al primo turno, in un paese estremamente frammentato, l’ex presidente Mohammed Morsi ottenne il 24% dei voti. Da quel momento, il discorso politico in Egitto si è polarizzato tra islamisti moderati ed esercito. E così ai due referendum costituzionali del 2012 e del 2014 si sono recati alle urne poco più di un terzo degli elettori, motivati dal sostegno alla Fratellanza, nel primo caso, e a esercito e vecchio regime, nel secondo.

È legittimo chiedersi dove siano i milioni che avrebbero invaso piazza Tahrir il 30 giugno 2013, secondo la giunta militare: una massa incontenibile da rendere necessario l’arresto di Morsi. «Sisi è il mio presidente», gridava un bambino di pochi anni alle porte del seggio di Sayeda Zeinab. I padri conducevano i figli alle urne, coperti da teli disposti per proteggere i votanti dal sole. Ma il generale, formatosi nelle scuole nasseriste, spaventa ancora di più dell’ultimo raìs, Hosni Mubarak. Sisi è arrivato al potere con le mani già macchiate di sangue dopo il massacro di Rabaa al Adaweya, costato la vita a quasi mille persone.

Si chiude così una delle campagne elettorali più deludenti dalle parlamentari del 2010. Abdel Fattah Sisi ha formalizzato solo a marzo la sua candidatura. I militari hanno bocciato l’altro uomo forte ex capo dello staff dell’esercito, Sami Annan, che non è sceso in campo dopo aver subito minacce, secondo la sua versione. A quel punto il generale Sedki Sobhi, amico di Sisi, duro oppositore dei movimenti operai, ha preso il suo posto al ministero della Difesa. In campagna elettorale Sisi ha puntato sull’esclusione dalla scena politica della Fratellanza.

Gli islamisti hanno subìto la repressione più dura dagli anni Novanta, culminata in 700 condanne a morte per gli scontri dopo la strage di Rabaa. «L’Egitto è ora uno stato militare con una facciata civile. Con la nuova Costituzione i militari godono di totale autonomia e nessuno può fermarli», spiega al manifesto il costituzionalista Zaid Al Ali, dell’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale (Idea).

«Se la Costituzione dei Fratelli musulmani limitava i processi militari ai civili alle circostanze previste dalla legge, ora i crimini per i quali un civile può essere riferito a una corte militare sono talmente tanti che basta partecipare a uno sciopero o a una manifestazione», continua Zaid. I militari hanno concesso forse qualcosa in più in termini di diritti delle donne? «La Costituzione tunisina è “gender sensitive” per cui uomini e donne sono uguali in termini di diritti, anche se l’interpretazione dei giudici ha ancora un peso considerevole. In Egitto non è così, in merito alle libertà personali viene ancora assicurato un ruolo maggiore alla legge islamica che in Tunisia, per cui per esempio in Egitto è proibito adottare», prosegue Zaid. «Nella costituzione egiziana non è previsto il diritto allo sciopero e il nuovo presidente non ha formato un partito politico prima di candidarsi. Questo spiana la strada ad un nuovo partito unico», conclude.