Più che una richiesta è un appello disperato: «Presidente, non parlare oggi all’assemblea dei gruppi. Aspetta di ascoltare quello che dirà Letta prima di prendere una decisione. Altrimenti il nostro stesso elettorato non capirebbe». Al pranzo-vertice di palazzo Grazioli i ministri sono compatti. Hanno da poco diramato un comunicato durissimo contro le minacce del Giornale: «Non ci faremo intimidire dal metodo Boffo». Hanno anche sgombrato il campo, per quanto possibile, dall’ombra del tradimento rendendo irrevocabili le dimissioni. Ma la speranza di evitare il passo fatale non la hanno persa.
L’ospite li gela. Di fronte ai gruppi non solo prenderà la parola, ma sarà solo lui a farlo. Un discorso un po’ confuso, che cerca di tenere insieme la decisione di licenziare il governo per correre al voto, e quella di limitare al massimo le possibili defezioni. Una linea, quindi, che lascia alle colombe lo spazio per un ultimo tentativo, che si consumerà oggi.
Il capo respinge le dimissioni dei parlamentari (che peraltro non erano state depositate nelle sue mani), definendole «il regalo più bello». Conferma invece quelle dei ministri e ordina anche ai sottosegretari di sgombrare. «La nostra esperienza di governo è finita», dice, ma assicura che non mancherà il sostegno ad alcune misure: decreto Iva, azzeramento della seconda rata Imu, legge di stabilità purché non preveda tasse. Subito dopo, però, «si deve votare»
Ai dissidenti riserva una stoccata lieve, «I panni sporchi si lavano in famiglia», gli concede un minimo onore delle armi «Sono preoccupati per i consensi e forse hanno ragione». Però da per conclusa la diatriba: «Con i ministri abbiamo chiarito tutto». E la decisione di rompere, specifica, la ha prese lui da solo. Chi si schiera contro deve sapere di bocciare la linea del capo, fondatore e padrone.
Ci sarà qualcuno che, domani a palazzo Madama, oserà tanto? E’ probabile. Da settimane nel Pdl è cresciuta la fronda di quelli che vogliono la «sezione italiana del Ppe». Vengono da esperienze diverse, ma la colonna vertebrale è composta dall’area Comunione e liberazione, in stretto contatto con Pier Casini. Quanto la loro operazione sia approvata e sostenuta dalla Cei vale a chiarirlo il durissimo editoriale con cui ieri l’Osservatore romano si è scagliato contro la scelta guerresca del Cavaliere.
In quanti sono ad avere le valige già pronte? Gli ottimisti si spingono sino a dare per certo il numero necessario per formare un gruppo al Senato, Italia popolare: dieci. Nessuno però si azzarda a profetizzare la quasi ventina necessaria per confermare la fiducia a Letta.
Al progetto politico di Cl si sommano le scontentezze di quanti si sentono tagliati fuori da un partito in mano alla Pitonessa. Cicchitto, l’unico che al termine del comizio berlusconiano di ieri abbia protesta per l’assenza di un necessario dibattito. Angelino Alfano, che a pranzo ha detto senza mezzi termini che lui in un partito guidato da Danielona non ci può stare, e il Cavaliere si è mosso di conseguenza ordinando all’incendiaria di declinare l’invito a Piazza Pulita di ieri .
Affermare che «tutto» è chiarito, insomma, è una grossa esagerazione, anche se alla fine, quasi certamente, Berlusconi riuscirà a ricondurre all’ordine il grosso della truppa. Ma per raggiungere quella meta ha dovuto pagare il prezzo di una oggettiva ambiguità nel discorso di ieri. Cosa succederebbe se Letta inserisse nel suo discorso i punti elencati ieri da Berlusconi (ipotesi però molto improbabile)? Berlusconi dovrebbe votare una assurda fiducia a termine, e si tratterebbe anche di un termine breve dal momento che ieri ha assicurato senza che per varare quei provvedimenti «basta una settimana». E ancora, come si comporterebbe il Pdl se il premier evitasse di porre la fiducia?
Domande legittime ma scolastiche. Al netto delle ambiguità diplomatiche, il monologo del capo non lascia margini di dubbio. La decisione che ha preso «da solo» è quella di affondare il governo. Le finte «aperture» servono solo a evitare di apparire come responsabile dell’aumento dell’Iva e del ritorno dell’Imu agli occhi del popolo presto votante.
Peraltro, ad acuire più che mai le tensioni, è arrivata ieri sera la telefonata «rubata» da Piazza Pulita, nella quale il Furioso accusava senza mezzi termini Napolitano di aver pilotato la sentenza sul lodo Mondadori. Con la crisi il fattaccio non c’azzecca. Ma nessuno può pensare che un simile incidente diplomatico non renda ancora più incandescente la guerra ormai quasi personale fra il presidente di Forza Italia e quello della Repubblica.