Alle tre e mezza del pomeriggio, quando i parlamentari del centrodestra lasciano l’Aula per non partecipare al quarto scrutinio e sciamano sul piazzale antistante al palazzo, la battaglia dei cori opposti si infittisce, le bandiere sventolano più forte, e la temperatura sale, anche all’ombra.

Osservata da lontano, in quel frangente la scena di Piazza Montecitorio fa un effetto disorientante: il grido «Ro-do-tà, Ro-do-tà» si alza tra i vessilli tartarugati di Casa Pound e quelli bianco-azzurri dei Fratelli d’Italia, della Giovane Italia e del Pdl.

Poco prima il contatore era più a favore dei sostenitori del giurista – attivisti a Cinque Stelle, militanti Pd, Popolo Viola e cittadini irrequieti, che presidiano per il secondo giorno la Camera – ma la chiamata alle armi via twitter di Giorgia Meloni, presidente dei deputati di La Russa, ha prodotto i suoi frutti.

La piazza è divisa in quattro, i pro-Rodotà strillano forte ma sono circondati da quelli che «Prodi è il male assoluto»; si arriva perfino agli insulti e a qualche spintone. Ma alla terza fumata nera esultano tutti insieme. Nei sostenitori di Stefano Rodotà si riaccende la speranza per un ripensamento del Pd: «Rimane solo lui, se si sommano i suoi voti a quelli di Romano Prodi, Rodotà ha la maggioranza». Poche ore dopo l’ex premier ritirerà la sua candidatura.
Per tutto il pomeriggio i Fratelli d’Italia tengono il punto: «No a Prodi, D’Alema e Bersani. Vogliamo un presidente degli italiani». A presiedere le retrovie i duri di Gianluca Iannone, braccia palestrate e tatuate sventolano la tartaruga di Casa Pound, l’estremismo dell’estrema destra. Prodi non ce l’ha fatta e loro si preparano a brindare a «Barbera e champagne»: «Ogni votazione – spiega uno dei portavoce, Alberto Palladino – sancisce il proseguimento dell’inciucio, che non è come si pensa tra Pd e Pdl ma tra Pd e M5S».

In realtà per tutto il pomeriggio Iannone ha incitato i «fratelli» a «mollare al suo destino il Pdl», reo di aver ceduto alla sirena Marini. Ma il problema ora è Prodi, che «non può essere capo dello Stato perché è colui che ha smantellato l’Iri e le principali aziende pubbliche – dice il candidato sindaco a Roma di Casapound, Simone Di Stefano – Prodi è quello che ci ha portato nell’euro e ci ha impoverito. Se eletto privatizzerà Finmeccanica, Eni e la Cassa Depositi e Prestiti. Chiediamo al M5S di non sostenerlo».
Li conforta vedere la maglietta di cui fa bella mostra la Pdl Alessandra Mussolini – «No questo no, il diavolo veste Prodi» – prima in Aula (richiamata dalla presidente Laura Boldrini) poi in piazza.

E li rassicura l’omaggio dei tanti parlamentari che sfilano, a turno, davanti alle transenne: arriva Maurizio Gasparri e poi Meloni, Crosetto, Rampelli, Corsaro… E Ignazio La Russa, che mostra alle telecamere un cartello contro Prodi e per un capo dello Stato che rappresenti, secondo il dettato costituzionale (articolo 87), «l’unità nazionale». Fa per andarsene ma quando sente alcuni manifestanti intonare Bella Ciao non resiste e si mette a “cantare” l’Inno di Mameli.

La tensione sale. Gianfranco Mascia, blogger del Popolo Viola, innalza un cartello: «Noi i fascisti non li vogliamo». I camerati di Casapound se la prendono, partono insulti incrociati. I poliziotti, che il giorno precedente non erano in piazza, sono schierati. Arriva anche Renato Brunetta per salutare i suoi ma ci rinuncia: l’aria è troppo pesante.

Poi rispunta una mortadella. Domenico Gramazio recita il remake del gennaio 2008 quando con Nino Strano si ingozzavano di suino e champagne. Questa volta non c’è il vino, e nemmeno i tarallucci. La situazione non è preoccupante, e neppure seria.