Negli stessi minuti in cui Matteo Renzi al Lingotto di Torino pontificava sui successi dei governi del Pd e sulle prospettive future fantasmagoriche, la Cgia di Mestre rendeva pubblica una ricerca che confutava in pieno le sue parole.

La ripresa economica italiana è la più lenta in Europa e soprattutto rischia di affievolirsi già quest’anno. Analizzando e ponderando gli ultimi dati di previsione elaborati dalla Commissione europea per il 2018 e le prospettive di Prometeia, il centro studi delle piccole imprese sancisce che tra tutti i 27 paesi Ue nessuno conseguirà una crescita più contenuta della nostra nel 2018: 1,3 per cento.

Quasi la metà di Grecia e Spagna (2,5 per cento per entrambe) e lontanissimo dalla Germania (2,1 per cento), meno marcata la distanza con la Francia di Macron (1,7).

E anche i consumi delle famiglie (+1,1 per cento) e quelli della Pubblica amministrazione (+ 0,3 per cento) registreranno gli aumenti più striminziti. Un risultato molto preoccupante, visto che la somma dei valori economici di queste due componenti costituisce circa l’80 per cento del nostro reddito nazionale totale.

La Cgia giudica negativamente anche le performance del 2017 e ancora peggio i tempi del ritorno ai livelli pre crisi. Il livello di crescita raggiunto l’anno scorso è lo stesso di quello che registravamo nel 2003 e per recuperare la situazione ante crisi (2007) le previsioni di crescita elaborate da Prometeia dicono che dovremo attendere il 2022-23.

Se per le esportazioni abbiamo recuperato il livello pre crisi già nel 2014, su consumi delle famiglie e investimenti (pubblici e privati) per recuperare quanto perso in questi 10 anni dovremo attendere rispettivamente il 2019-20 e addirittura il 2030, confermando come siano proprio gli investimenti il tallone d’Achille del nostro paese.

Dunque proprio quegli industriali del Nord Est evocati da Renzi per rispondere al Berlusconi che prometteva l’abolizione del Jobs act («Saranno contenti») assestano un colpo da ko al segretario del Pd già alle prese con sondaggi da incubo che lo costringono a dover rinunciare già in partenza al ritorno a palazzo Chigi.

Le parole usate da chi guida la Cgia contro i governi Pd sono durissime. «A differenza di quanto è successo in questi ultimi anni – segnala il segretario della Cgia Renato Mason – speriamo che il nuovo esecutivo che uscirà dalle urne torni a occuparsi dei temi strategici come creare lavoro di qualità, quali politiche industriali e formative sviluppare, come affrontare le sfide che l’economia internazionale ci sottopone. Abbiamo bisogno di affrontare queste tematiche, altrimenti rischiamo di veder aumentare lo scollamento già molto preoccupante tra mondo della politica e paese reale».

Anche a livello territoriale la situazione è assai negativa. Rispetto a dieci anni fa, infatti, solo la provincia di Bolzano (+12 per cento) e la Lombardia (+0,4 per cento) hanno recuperato il terreno perduto in questi ultimi dieci anni di crisi economica. Tutte le altre realtà territoriali sono in negativo: tra quelle più in ritardo la Calabria (-11,2 per cento), la Liguria (-11,4), la Sicilia (-12,5), l’Umbria (-14,9) e il Molise (-16,9).

Il Veneto rimane «la locomotiva» d’Italia ma viaggiando a velocità molto minori rispetto al passato. A livello regionale i dati previsionali ci dicono che nel 2018 il Veneto è destinato a guidare la classifica della crescita del Pil (+1,6 per cento).

Al secondo posto l’Emilia Romagna e la Lombardia (+1,5 per cento) e in quarta posizione il Friuli Venezia Giulia (+1,4 per cento).

«Grazie all’export, al consolidamento dell’industria che trarrà un deciso vantaggio dal forte aumento degli investimenti produttivi in atto e alla ulteriore crescita delle presenze turistiche – conclude Zabeo – il Veneto torna ad essere la locomotiva del Paese, anche se la velocità di crociera risulta sensibilmente inferiore a quella che registravamo fino alla metà degli anni 2000 quando contendevamo alla Baviera e al Baden-Württemberg la leadership dell’area manifatturiera più avanzata d’Europa. Purtroppo, le ferite inferte dalla crisi in questi ultimi anni si fanno ancora sentire». Come dire: anche il Jobs act non è servito a niente.