«Un po’ di possibile, sennò soffoco», invocava Gilles Deleuze nell’Immagine-tempo (dieci anni prima di trarne le conseguenze). Se «abbiamo bisogno di ragioni per credere a questo mondo», uno dei pochi gesti intellettuali che oggi provino a trovarle, queste ragioni, è Il mondoinfine: vivere tra le rovine, la mostra-concetto (come si dice concept-album) ideata da Ilaria Bussoni alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (a cura sua e di Simone Ferrari, Donatello Fumarola, Eva Macali e Serena Soccio, fino al 23 gennaio).
Bussoni è una giovane filosofa che dopo una formazione parigina ha messo al lavoro il pensiero nella forma dell’immaginazione editoriale, dando vita presso DeriveApprodi a una collana, «Habitus», che ha superato i venticinque titoli (densissimo, non a caso, il catalogo-manifesto della mostra). A inaugurarla l’Elogio delle vagabonde di Gilles Clément: «erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo», in una rinaturazione (o rinselvatichimento) del paesaggio dopo la fine del cosmo ordinato, sogno e incubo dell’Homo sapiens. I lavori degli artisti-pensatori (e dei pensatori-artisti, come lo stesso Clément in qualità di fotografo, o Felice Cimatti col suo divenire mosca chissà se memore delle formiche di Emilio Isgrò…) sono intervallati, con pressoché infallibile senso del ritmo, da oggetti non artistici che «sfuggono al nostro statuto»: geodi paleontologici, arcaiche tavole da gioco, schede di computer dismesse, una testa fittile di Giano Bifronte da Villa Giulia o i libri geomantici di Robert Fludd dalla Biblioteca Angelica (luogo che è già, di per sé, un’installazione del XVII secolo). Come dice Enrico Ghezzi, l’intervallo della vecchia RAI, a sua volta riprodotto in mostra, non era solo un’interpunzione nel palinsesto: bensì l’aprirsi di una latenza – filosoficamente, una potenza – che oggi, non a caso, appare inconcepibile.
Come scrive Stefania Consigliere va cercato un «modo nuovo di relazione tra le cose», «per non farsi soffocare da ciò che già è». Ad asfissiare è l’irreggimentazione del mondo nella griglia dell’«Occidente tassonomico», che s’illude di aver codificato una volta per tutte «la divisione dei regni – vegetali, animali, minerali», senza tenere conto dell’«inattesa varianza dei mondi possibili» (fra virgolette, ove non diversamente indicato, sempre Bussoni), e coincide col mondo dentro il capitale di Peter Sloterdijk, tiranneggiato dai paradigmi quantitativi: la Cosmopolis di DeLillo (e Cronenberg), il cosmo-denaro che «per il momento sembrerebbe aver vinto sui mondi degli altri, lasciando la gran parte di noi a vivere tra le rovine, incluse le sue».
La categoria del possibile ha ispirato a Clément, invece, il suo Giardino in movimento (Quodlibet 2011): formula-ossimoro che supera tanto l’ecocidio perpetrato dal turbocapitalismo suicidario quanto la museificazione di una Natura-feticcio da parte dell’ecologismo fondamentalista. L’ecologia viene così ridefinita da Bussoni – nel corpore vili della prassi espositiva – quale pratica di ascolto dell’eco tra enti diversi. Così traducendo un altro concetto-chiave di Clément, quello di terzo paesaggio: che designa l’insieme dei «luoghi abbandonati dall’uomo» ed è l’equivalente urbanistico del «terzo stato» (il che magari può rispondere alla prospettiva suggestivamente metamorfica, ma politicamente quietista, della Vita delle piante di Emanuele Coccia: un cui notevole testo figura in catalogo). Come ricorda Andrea Facciolongo nella prima monografia italiana su di lui (Paesaggi e marginalità, Mimesis, pp. 148, € 15,00), il percorso teorico di Clément inizia con un gesto squisitamente pratico: l’acquisto nel 1977 di un terreno incolto, poi ribattezzato La Vallée, che elegge a propria dimora e laboratorio di giardinaggio con «quello che c’è» (sono gli stessi anni dell’agricoltura come pratica artistica di Beuys e Baruchello).
Andrea Di Salvo propone un esperimento mentale che del resto, ricorda Riccardo Venturi, da un pezzo abita la letteratura e il cinema «apocalittici»: dopo la fine della specie umana, quanto tempo ci vorrebbe alla natura per «digerire le tracce del nostro istantaneo passaggio»? Ci si ricorda della vigna di Renzo, terribilmente rinselvatichita nei Promessi Sposi. Secondo Bussoni «la poetica è, fra le facoltà umane, quella che forse più di tutte un mondo consente di inventarselo»: il terzo paesaggio interstiziale va così ripensato col «terzo spazio» che ibrida identità e alterità (secondo il filosofo Homi Bhabha) e reale e immaginario (secondo l’urbanista Edward Soja). Ecco allora il Ceppo sradicato del «post-archeologico» Christoph Keller; ecco allora Rosetta S. Elkin riprendere la Teoria delle piante di Goethe. Ecco i diluvi video, leonardeschi e billviolacei, di Emanuele Becheri (Acquarelli distratti, 2015), ed ecco soprattutto i Wonder objects di Chiara Bettazzi (2013-2018): due artisti quarantenni, da me almeno inauditi, che rendono visibile l’ipotesi di un ricominciamento dopo la fine dell’Antropocene.
Davanti all’installazione crudele e ambiguamente elegante di Bettazzi, vengono in mente la Glass Menagerie di Tennessee Williams, le glass bells di Joseph Cornell (genealogia ripercorsa da Roberta Aureli, La campana di vetro, Bulzoni 2016), magari pure le bottiglie di Morandi. È, scrive Bussoni, una «natura morta e insieme graziata dalla vita»: dove non si sa, però, se da temere sia più la morte sotto vetro o la vita – la malattia della materia, diceva Thomas Mann – che malgrado tutto la insidia. Domina la polvere: segno di morte, certo, ma anche di una vita (il polline, il pulviscolo nel clinamen lucreziano) non così rassicurante appunto. È forse la stessa polvere che ha raccolto Gian Maria Tosatti nella chiesa napoletana dei Santi Cosma e Damiano, abbandonata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dove cominciò l’odissea delle sue Sette Stagioni dello Spirito: che dal 2013 al 2016 ha percorso la Città Porosa, dal Mal d’Archivio dell’ex Anagrafe alle tarkovskiane sabbie del tempo depositate nel tèmenos memoriale della Santissima Trinità delle Monache.
Alla fine viene in mente l’explicit di un gran libro del nostro tempo, l’Autoritratto nello studio di Giorgio Agamben: in cui l’unico possibile credo dell’ateologo è per l’«erba», dove «sono tutti coloro che ho amato». La fine della nostra vita individuale, come quella della specie cui apparteniamo, non coincide con la fine del mondo. Al contrario è il segno di una potenza: un po’ di possibile. Allo stesso modo si concludeva il Tendo al mio fine, inconsapevolmente heideggeriano, di Gadda: «crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia. E l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà».