«La teoria è una scuola di ironia», scriveva Antoine Compagnon nelle prime pagine del suo Demone della teoria, pubblicato vent’anni fa. Fare teoria è smaliziarsi, infondere dubbi, andare a vedere che cosa succede nella materia resistente di un corpo; fissare un’impronta per comprendere i legami con altre impronte; ricostruire un passo, un ritmo, un itinerario.
Nel nuovo libro di Federico Bertoni, Letteratura Teorie, metodi, strumenti (Carocci, pp. 318, € 28,00), la sorgente e, insieme, l’oggetto di quella strana resistenza vitale è, appunto, la letteratura, vista come un corpo in movimento, con le sue posture abitudinarie, i suoi slanci e le sue sclerotizzazioni, ma anche come un campo di contrasti violenti, di discontinuità, di conti che faticano a tornare.

Quattro esercizi di lettura
Nel 2006 Wolfgang Iser, in How To Do Theory, distingueva tra discorso e teoria: il discorso è deterministico, traccia confini, stabilisce criteri di dominio, mappe del giudizio; la teoria invece è analitica, tende a spostare quei confini e ad aprire nuovi spazi di significato. Dunque, la letteratura si ridefinisce, per Federico Bertoni, come un insieme di stratificazioni in rapporto l’una con l’altra: modi di raccontare, di riprendere o di abbandonare la linea del tempo narrativo, di progettare le rispondenze tra le parti. Dentro quelle stratificazioni ci si muove ogni volta in situazione, senza pose né pedanterie, senza mentire a se stessi: a partire da oggi, da qui.
La teoria è dunque scuola di critica, oltre che di ironia. Di critica, e di crisi. In particolare, Bertoni ha davanti a sé ha il mondo dell’università, con le atrofie del pensiero, le fantasticherie sulla morte della letteratura, le nostalgie per l’autorevolezza del canone e per l’innocua disciplina di un mondo di relitti. Modi, tutti questi, per ridurre il fenomeno letterario a un recinto serrato, a una galleria di feticci impalliditi, smarriti nel labirinto dell’informazione condivisa.

La prima parte del libro è dunque immersa nell’analisi di una «esplosione centrifuga dello spazio letterario», che oggi coinvolge una molteplicità ancora più complessa di quella immaginata da Calvino a metà degli anni Ottanta. A questa idea di letteratura irradiata, espansa fuori dai confini delle istituzioni che di solito la studiano, Bertoni dedica l’esercizio di una teoria in azione, articolata in quattro esercizi di lettura. Torna alla mente un bel libro di Franco Brioschi, La mappa dell’impero, del 1983, dove si provava a restituire un’idea nuova di ciò che è letterario a partire dai modi in cui un testo si può insegnare.

Nel libro di Bertoni agiscono quattro esempi, ognuno dei quali rivela qualcosa di inaspettato, di non calcolato, sul fenomeno letterario: il primo è Underworld di Don DeLillo, con la sua controstoria sviluppata a rovescio lungo la freccia del tempo, e con tutta quella pulsione a vivere il racconto come una «seconda occasione», presa per nominare, per toccare disperatamente il reale in mezzo a una prepotente surrealtà di luci metropolitane, immagini pubblicitarie e altre illusioni.

Cosa insegna, con la sua nuda evidenza, il labirinto luminoso di Underworld? Prima di tutto, l’indefinibilità del campo di relazione tra chi scrive e chi legge. Nell’analisi di Bertoni, DeLillo costruisce un sistema di resistenza e di astuzia, di provocazione dell’immaginario dei suoi lettori potenziali. È come se li prendesse in trappola, precipitati in quel brulicare che domina il romanzo come un enorme rumore di fondo. Ed è a partire da quell’indefinibilità che Bertoni ritorna allo sviluppo della teoria nel secondo capitolo, Letteratura, due o tre cose che so di lei. Una storia del termine, un avvicendarsi delle sue mutazioni, fino alla svolta di Madame de Staël, Della letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali (1800), che traccia la strada verso i significati possibili di oggi.
Nei paragrafi successivi, Bertoni indaga sul quando, sul dove, sul come e sul perché della letteratura, muovendo da sollecitazioni complesse: da Francesco Orlando, per esempio, nelle parti dialogiche del celebre Per una teoria freudiana della letteratura; poi, dall’Eutanasia della critica di Mario Lavagetto, richiamata in più punti per la sua impietosa sottigliezza, che ha aperto gli occhi sullo svilimento e sulla standardizzazione recente della ricerca critica.

Partendo da questi fondamenti, Bertoni dirige la sua analisi verso un altro caso di irriducibilità, di resistenza alla teoria: l’esempio di Madame Bovary. Il capolavoro di Flaubert diventa il campo di esercizio per ridimensionare, una volta per tutte, l’invecchiamento di certe formule narratologiche, ridotte a meccanismi di incasellamento del testo nella consuetudine scolastica e accademica. Ancora per via negativa, Bertoni mostra così lo strumentario per ridefinire l’idea di testo, e il suo esporsi volta per volta come modo di reinvenzione del reale, come progetto, come racconto a specchio, come racconto nel racconto, come realizzazione di un cosmo.
A queste suggestioni – esemplificate tra Gadda, Calvino e un reticolo di riferimenti ad altri autori – segue la terza lettura, dedicata a un testo polimorfo, instabile, e tuttavia vertiginosamente proiettato su se stesso: Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, analizzato come una serie di calibrature interne che convivono con una sorta di principio di sovvertimento, anch’esso resistente – sottolinea Bertoni – a una nozione troppo stretta di teoria: «la fine del testo è la soglia di un destino aperto come la vita e la morte».

Tra tema e struttura
Da questa apertura si sviluppa poi il capitolo dedicato a I ferri del mestiere, che torna su alcune nozioni di teoria letteraria per via prevalentemente negativa: genere, modo, struttura, tema. Qui Bertoni insiste sul grado di trasformazione e di interazione dei quattro termini nella storia recente della critica, dando a ciascuno un valore inclusivo; e soprattutto un senso di lettura prismatico, che comprende l’opera nella sua profondità, uno strato dentro l’altro.
Il quarto esercizio di lettura, Il Master di Ballantrae di Robert Louis Stevenson, è un testo che dialoga direttamente con la teoria, con le sollecitazioni dei suoi anni, con i contesti, con le soglie che lo circondano. Un dialogo, sottolinea Bertoni, che finisce per complicare il rapporto tra narratore e lettore, per offuscare e rinegoziare continuamente la loro affinità, le loro corrispondenze d’intenti. L’epilogo di Letteratura torna a riflettere sull’idea di crisi: stavolta non della letteratura, ma di tutte quelle consuetudini opportunistiche e spicciole che hanno affidato a un pigro senso comune il dominio delle maniere di studiarla e di trasmetterla. Qui, alla fine del percorso, Bertoni scommette su una funzione radicale, su una visione aperta, profondamente critica e dialogica del pensare la teoria: «situata, militante, inevitabilmente politica».