Secondo le accuse depositate dal procuratore speciale Robert Mueller che sta indagando sul Russiagate, l’ex direttore della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, ha tentato di corrompere i testimoni a suo carico nell’ambito dell’inchesta aperta nei suoi confronti, per il pagamento delle tasse federali e la sua attività di lobby.

MANAFORT – prima di curare la campagna elettorale repubblicana del 2016 – è stato lobbista per il governo ucraino filorusso di Viktor Yanukovich. Non è poi andato molto lontano con la campagna per la presidenza degli Stati uniti che ha dovuto lasciare tre mesi prima delle elezioni, a seguito delle prime voci di finanziamenti illeciti russi. Al momento Manafort è tra le poche teste davvero cadute per via delle indagini di Mueller sul Russiagate; nell’ottobre 2017 si è costituito, ha pagato una cauzione ed è finito agli arresti domiciliari. Contro di lui ha testimoniato anche il suo ex socio in affari Rick Gates: allo stato attuale su di lui pesano 12 capi d’accusa. Si spazia da pagamenti illeciti a imprenditori e politici europei per conto dell’Ucraina, al riciclaggio, alla frode fiscale per approdare fino alla cospirazione contro gli Stati Uniti.

AGLI ARRESTI DOMICILIARI con questo genere di accuse, Manafort ha forse sottovalutato il controllo a cui è sottoposto da parte dell’Fbi, e ha comunicato via telefono e messaggi crittografati, in palese violazione delle regole degli arresti domiciliari, con due testimoni chiave, i cui nomi non sono pubblici. Il primo tentativo di pressioni è avvenuto il 24 febbraio, il giorno seguente l’ammissione di colpevolezza del suo ex socio Gates che ora collabora con Mueller. Manafort si sarebbe anche identificato al telefono per aggiungere subito dopo: «Voglio darti un consiglio sulla questione Hapsburg». L’interlocutore a questo punto, come in una scena di Pulp Fiction, avrebbe immediatamente riattaccato, ma questo non ha impedito all’ex manager della campagna di Donald Trump di insistere tramite messaggi mandati da una app crittografata, per ribadire: «Dobbiamo parlare».

QUESTI MESSAGGI sono stati scaricati dall’iCloud di Manafort e fanno ora parte del dossier di accusa depositata lunedì da Mueller, che a sua volta ha chiesto ai giudici di revocare gli arresti domiciliari per il lobbista. Visto che via telefono la comunicazione era povera, Manafort ha provato a realizzare dei contatti attraverso un intermediario non identificato, che in un messaggio del 28 febbraio inviato tramite WhatsApp ha scritto: «Fondamentalmente P vuole fare un breve riassunto che dice a tutti (il che è vero) che i nostri amici non hanno mai fatto pressioni negli Stati uniti, ma che lo scopo del programma era l’Ue». Poi, ad aprile, lo stesso intermediario ha inviato un messaggio a un’altra persona: «Il mio amico P sta cercando dei modi per connettersi a te per passarti diversi messaggi. Possiamo organizzare».