Palmira in Siria, Mosul in Iraq. Mentre l’esercito del presidente Assad riprendeva ieri il castello dell’antica città al centro del paese e il Pentagono annunciava l’uccisione del leader in seconda dell’Isis, il “ministro delle Finanze” Abdul-Rahman Mustafa Mohammed, al di là del confine si preparava il terreno alla controffensiva sulla seconda città irachena.

L’operazione è partita: ci sono truppe governative, peshmerga da Erbil e soldati Usa. Lo rivela Middle East Eye, che cita fonti militari kurde: 200 marines stanno prendendo parte all’operazione su Mosul.

Quasi in prima linea tanto da cadere negli attacchi dell’Isis: sabato scorso un soldato Usa sarebbe morto e altri feriti. «L’artigliera e i jet Usa non si sono fermati un minuto – dice il comandante peshmerga Ghalali – La loro partecipazione è cruciale per questa battaglia». Conferme ufficiose arrivano anche dal commando Usa: fonti interne confermano la presenza di truppe di terra e l’apertura di una base militare, la Fire Base Bell, seppure la Casa Bianca dica che le proprie unità si occupano solo di proteggere con colpi di artiglieria l’avanzata di kurdi e iracheni.

Per ora gli scontri si concentrano in villaggi a 50 km da Mosul, nella provincia di Ninewe, fondamentali per lanciare l’assalto sulla prima città irachena caduta in mano all’Isis nel giugno 2014. Il punto di partenza è la base di Makhmour, dove si concentrano 300 marines e addestratori che supervisionano unità peshmerga e gruppi tribali sunniti.

Una vera e propria controffensiva non è però imminente: ad oggi sono stati liberati quattro villaggi nel distretto di Makhmour e il timore maggiore è la tenuta dell’esercito iracheno. Servirebbero almeno 30mila uomini per liberare la città dalla morsa dell’Isis, che ha messo in sicurezza le periferie con trincee, tunnel e campi minati. Per ora, però, l’esercito iracheno di militari ne ha dispiegati 3mila.

Chi non nasconde l’interesse su Mosul è il Kurdistan iracheno. Da tempo il presidente della regione autonoma, Masoud Barzani, ripete che i peshmerga sono disponibili a partecipare alla controffensiva ma di voler inglobare la città nei nuovi confini kurdi. Ma le ambizioni di Erbil si ampliano ogni giorno di più, forte delle alleanze strette con gli Stati Uniti ma soprattutto con la Turchia di Erdogan.

I punti di contatto tra i due leader sono molti di più di quelli che legano i kurdi iracheni ai kurdi siriani e turchi. Tanto da far ammettere a denti stretti a Barzani il sostegno all’operazione turca contro il Pkk, ripetutamente bombardato dal luglio scorso a Qandil, nel nord dell’Iraq. Pur negando di aver ricevuto pressioni da Ankara a partecipare alle operazioni contro il Pkk, Barzani critica il Partito Kurdo dei Lavoratori e il suo braccio siriano, il Pyd: «Ogni sostegno al Pyd significa sostegno al Pkk, sono esattamente la stessa cosa. E il Pyd non appare sincero quando parla di democrazia».

Erbil in cambio chiede appoggio per l’obiettivo finale: l’indipendenza. Due giorni fa Barzani è tornato sulla questione del referendum, promettendo che si terrà entro ottobre: «Posso dire con convinzione che, escluse le circostanze al di fuori del nostro controllo, proveremo a organizzarlo per quest’anno, penso prima di ottobre», ha detto al quotidiano online al-Monitor. Solo allora, ha aggiunto, si dimetterà dalla presidenza che tiene in “ostaggio” dal 2005: dopo essersi auto-accordato un’estensione di due anni al mandato nel 2013, lo scorso anno ne ha allungato di nuovo i termini in aperta violazione della legge.

La questione è centrale per la tenuta dell’Iraq: Baghdad è aspramente contraria a qualsiasi frammentazione del territorio nazionale e lo ha dimostrato nei mesi scorsi ingaggiando un lungo braccio di ferro con Erbil. I kurdi hanno cominciato a vendere greggio in autonomia (passando proprio per la Turchia) e il governo centrale ha risposto tagliando il budget federale.