Si è aperto ieri a Creta il Concilio panortodosso o, per meglio dire, la riunione di ciò che resta di quel progetto.

Si tratta di un evento di grande rilevanza, se si considera che l’ultima assemblea di questa natura si era svolta a Nicea più di mille anni fa. La riunione sinodale – alla quale sono chiamati a partecipare i rappresentanti delle 14 chiese autocefale che compongono attualmente la Chiesa ortodossa – rappresenta il punto di arrivo di un percorso iniziato nel 1961, quando, per volontà del patriarca ecumenico Athenagoras, fu convocata la conferenza di Rodi che elaborò una prima lista di temi da discutere. L’anno seguente sarebbe iniziato il Vaticano II che ha funzionato da stimolo e da modello per gli ortodossi.

La convocazione e la preparazione sono state gestite dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli, primus inter pares che svolge un ministero di comunione tra le varie chiese. La fase di allestimento, nell’ultimo periodo nelle mani del patriarca Bartolomeo, è durata circa trent’anni arrivando solo recentemente, e dopo numerosi compromessi, alla stesura di una serie di documenti che sarà sottoposta all’assemblea; documenti che riguardano la missione cristiana, la diaspora ortodossa, l’autonomia delle chiese locali, il matrimonio e l’ecumenismo. Il sistema di approvazione prevede l’unanimità, ma i problemi che avevano caratterizzato la discussione sono riesplosi nelle ultime settimane in tutta la loro profondità fino a provocare la spaccatura.

In un mondo variegato come quello ortodosso e da relativamente poco tempo uscito dagli schemi della guerra fredda, l’operazione promossa da Bartolomeo per aggiornare il profilo della Chiesa alla luce della modernità (e della secolarizzazione) ha incontrato numerose resistenze. Successivamente si sono registrate anche prese di posizione negative dei sinodi di intere chiese, come quella della Chiesa di Georgia e di Antiochia che hanno deciso di non partecipare in polemica (per motivi diversi) con i documenti sul matrimonio e sull’ecumenismo. Il rapporto con la Chiesa cattolica e nello specifico il problema del primato petrino, del resto, costituiscono ancora un terreno di scontro, nonostante i notevoli passi avanti compiuti sotto papa Francesco: dall’incontro con Bartolomeo a Gerusalemme nel maggio 2014 a quello più recente con il patriarca di Mosca Kirill a Cuba.

Quest’ultimo, molto criticato per l’incontro con il papa, ha annunciato pochi giorni fa la decisione di non andare a Creta rilanciando la proposta della chiesa di Antiochia, dei bulgari e dei georgiani di rinviare l’assemblea e affermando che, nei fatti, quello di Creta non può essere considerato un vero e proprio Concilio.

La scelta dei russi, che da soli rappresentano i due terzi degli ortodossi nel mondo, ha fatto parlare dunque di un fallimento del Concilio. Di certo, il fatto stesso che il Concilio si possa celebrare (anche se in forma ridotta e comunque con la presenza dei serbi, pure attestati su una posizione critica) non è cosa da poco, soprattutto dal punto di vista simbolico. Ne sono perfettamente coscienti a Mosca, in una chiesa oggi più che mai vicina al disegno di Putin per rilanciare la Russia come protagonista.

A questo proposito, alcuni osservatori hanno scritto che il patriarcato di Mosca, storicamente concorrente a quello di Costantinopoli, non solo non avrebbe interesse per i documenti preparatori, ma che la celebrazione stessa di un Concilio, e quindi la delega a un’assemblea paritaria delle chiese, rappresenterebbe un fastidio per la sua politica. È da osservare poi anche che nel comunicato della chiesa russa si afferma che in futuro il Concilio dovrà convocare tutti i vescovi (e non solamente le loro delegazioni), aumentando così il peso di Mosca, ma rendendo più difficile raggiungere una condivisione delle linee di fondo. Se insomma Kirill, dopo aver dato il suo assenso all’assemblea, non ha fatto niente per sostenerla, più in generale, si registra una certa reticenza da parte di ampi settori delle chiese ortodosse a rivedere criticamente il proprio rapporto con la tradizione e questo in un momento in cui, da un lato, il cattolicesimo sta vivendo una fase di ripensamento e, dall’altro, c’è grande attesa per gli effetti che produrranno nel mondo protestante le celebrazioni dei 500 anni dalla Riforma.