Da un po’ di tempo, in questa rubrica mi occupo delle mostre sulla moda che, con una proliferazione insensata, occupano le sale dei musei di mezzo mondo. Le mostre sulla moda, in sé, sono pericolose perché se sono troppo concettuali non attirano il pubblico necessario al suo successo, se sono troppo didascaliche allontanano il popolo della moda a cui sono destinate. Ma c’è anche un altro aspetto più radicale che rende ogni mostra sulla moda un non-sense.

Scrive Karl Lagarfeld che «La moda va consumata subito. Il meglio che possa accadere a un abito è di essere indossato. Non di essere esposto in un museo», (Il mondo secondo Karl, Rizzoli). Con questo, Lagerfeld esprime il fastidio che molti designer avvertono quando sentono accostare la moda all’arte, convinti che il loro ambito sia un percorso creativo molto più libero e, anche se controverso, sociologico. Forse, il problema nasce anche dal fatto che una mostra sulla moda ha senso se spiega tutto quello che non è evidente guardando le vetrine oppure, ora, le photo gallery delle sfilate dei web magazine. Invece, da un po’ di anni c’è stato un proliferare di mostre il cui unico pretesto è incrementare il senso pubblicitario che si scatena attorno all’evento, un po’ come le mostre blockbuster dell’arte degli ultimi venti anni.

Per citare solo le più spettacolari mostre sulla moda attualmente aperte, vanno ricordate The Glamour of Italian Fashion: 1945-2014 al Victoria and Albert Museum di Londra (fino al 27 luglio 2014), che celebra la nascita della moda italiana e può essere definita un’antologica delle belle speranze, e Charles James: Beyond Fashion (fino 10 agosto 2014), dedicata al sarto inglese naturalizzato americano Charles James (1906–1978). Poi ci sono le personali di Jean Paul Gaultier (Barbican Gallery, Londra, fino al 17 agosto), Dries Van Noten (Musée des Arts Decoratifs, Parigi, fino al 31 agosto) e tante altre in giro per il mondo (Milano è assente dall’elenco non perché evita questa trappola ma perché l’immobilismo regna sovrano).

Ha quindi senso, oggi, visitare una mostra sulla moda per vedere degli abiti addosso a dei manichini o stampati sulle foto che ci ricordano, nostalgicamente, un mondo che non c’è più e che è impossibile da resuscitare? Ovviamente no, e soprattutto se le mostre sono allestite come le vetrine delle boutique: un abito-un manichino. Nel 1983 Diana Vreeland, allora responsabile del Costume Institute del Metropolitan di New York, sfidò le ire di tutto il fashion world e dell’establishment artistico organizzando la mostra Yves Saint Laurent. 28 années de création: le si opponeva che non si poteva fare una mostra su uno stilista vivente. Invece, non solo la mostra durò più del previsto (nove mesi) ma resta anche l’unico esempio di come una esibizione può rendere visibile al pubblico un percorso creativo che sa scolpire il tempo costruendo degli abiti. Solo così i visitatori di una mostra sulla moda possono capire di osservare un mondo che appartiene anche a loro.

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