Non finiremo mai di ringraziare Toni Morrison. Sia per dei capolavori assoluti come La canzone di Salomone (1977), Amatissima (1987) e Jazz (1992) e per romanzi più complessi ma non per questo meno godibili, come Paradiso (1997), Amore (2003), Il dono (2008). La ringrazieremo, sempre, anche per Giochi al buio (1992), un’analisi della «presenza africanista» nei romanzi di Edgar Allan Poe, Herman Melville, Willa Cather ed Ernest Hemingway capace di ridimensionare ogni opera del canone letterario bianco nordamericano. E non smetteremo di ringraziarla, Morrison, per aver curato con l’acume politico che la contraddistingueva, e ben prima della nascita del movimento #MeToo, una raccolta di saggi dedicati alle audizioni che portarono alla nomina, nel 1991, del giudice Clarence Thomas alla Corte Suprema degli Usa, in barba alle accuse di molestie sessuali mosse dall’avvocato Anita Hill, ferocemente ostracizzata e vilipesa dai senatori sia democratici sia repubblicani.

E NON SMETTEREMO di ringraziarla, Morrison, per la risposta fulminante data in tv a Charlie Rose. «Potrebbe mai scrivere un romanzo che non sia incentrato sulla razza?», le aveva chiesto il malcapitato nel 1998. Regale, ma paziente, Morrison aveva dovuto spiegargli che: «Tolstoj scrive sempre di razza, e così facevano sia Zola sia Joyce… Vede, quelli che mi fanno questo genere di domanda non si rendono conto che la razza non ce l’ho solo io… Dover dimostrare di essere in grado di scrivere anche romanzi sui bianchi è imbarazzante e offensivo». Colpito e affondato.
Come non ringraziarla, infine, per il ruolo cruciale che, come pure indicato nel 2003 da Hilton Als sul New Yorker, Morrison ha avuto come levatrice di una intera generazione di scrittori neri?

L’occhio più azzurro, il suo primo romanzo, uscì nel 1970, un’epoca in cui, ricorda Als, il panorama della letteratura americana era maschile e urbano e scrittori neri come Ralph Ellison, Richard Wright o il suo adorato James Baldwin, scrivevano per i lettori bianchi. Morrison no. Lei era diversa e fece tutto il contrario. Al pubblico che nel 2013 sarebbe accorso a sentirla conversare con Junot Diaz, avrebbe raccontato, per esempio, di aver sempre trovato fastidioso il titolo del grande romanzo afro-americano di Ralph Ellison: L’uomo invisibile (1952). Invisibile per chi? Si è sempre chiesta lei. Non per me. Io gli uomini neri, li vedo benissimo e li racconto. E anche le donne.

FIN DAI PRIMI ROMANZI Morrison «relegò il mondo bianco in zona periferica; piazzò al centro la vita dei neri, al centro di tutto mise le donne nere», ricorda a tale proposito Als. E non si limitò a farle parlare solo dai suoi libri. In qualità di editor presso la casa editrice Random House Morrison fece tutto quel che era in suo potere per incoraggiarle a scrivere i loro libri.

In realtà il primo libro uscito per Random House con la sua cura fu un’antologia dedicata alla letteratura africana contemporanea. Una tappa di cui cogliamo la rilevanza quando, al già disorientato Charlie Rose, Morrison spiegò di «aver dedicato la mia vita di autrice a evitare che nei miei libri lo sguardo bianco si trovasse in posizione dominante. E in questo senso le persone che mi hanno aiutato di più… sono stati scrittori africani, come Chinua Achebe, Bessie Head, e cioè autori che potevano contare sulla centralità della loro razza, perché erano africani, e non dovevano giustificarsi davanti ai bianchi».

IN QUESTO TERRITORIO libero Morrison instraderà non solo Henry Dumas e Muhammad Ali, ma soprattutto Angela Davis, di cui avrebbe curato la celeberrima Autobiografia (1974), uno dei testi più rappresentativi degli anni Settanta, oppure Toni Cade Bambara, di cui, dopo la morte avrebbe anche curato una ricca antologia degli scritti, e naturalmente Gayle Jones, che avrebbe assistito nella preparazione di un capolavoro quale Corregidora (1975). Di loro, del loro talento, della sua amicizia con queste e altre donne, Morrison, avrebbe sempre parlato volentieri.

Lo avrebbe fatto sia con Als, che nel 2003 stava compilando il suo Profilo, sia con una laureanda comprensibilmente emozionata che, nel 2002, nel corso di un incontro con i docenti e gli studenti dell’Università La Sapienza, le chiese da dove venissero le eroine dei sui romanzi. Morrison, a Roma, la prese alla lontana. Raccontò di come lei e le sue amiche, alcune scrittrici altre no, tutte lavoratrici, la gran parte divorziate e con figli, si aiutassero l’una con l’altra. Quando una di loro aveva una scadenza da rispettare o un lavoro importante da finire, le altre intervenivano per badare ai figli, fare la spesa, preparare da mangiare. I suoi personaggi, ci spiegò Morrison, traevano ispirazioni da queste donne. Ragion per cui, proseguì, lei non avrebbe mai scritto un romanzo come Madame Bovary, perché se a una di loro fosse saltato in mente di comportarsi come l’eroina di Gustave Flaubert, le altre l’avrebbero immediatamente messa in guardia con un bel «Emma, what the fuck are you doing?».