A urne ormai chiuse c’è calma davanti alla splendente magione del presidente della repubblica Mahinda Rajapaksa, che si trova a qualche metro dal mare appoggiata sulla lunghissima Gale Road e dirimpetto all’ambasciata americana: uno dei tanti “centri” un po’ anonimi in cui la capitale dello Sri Lanka è divisa.
La controversa elezione del nuovo presidente della repubblica che Rajapaksa è riuscito a convocare per ieri con uno stratagemma parlamentare due anni prima della scadenza naturale, è passata tranquilla ma con una novità importante: un’affluenza che sembra addirittura aver superato i due terzi degli aventi diritto e senza che si verificassero gravi episodi di violenza o intimidazione.
A beneficiarne – dicono gli analisti – potrebbe essere il rivale del capo dello Stato – Maithripala Sirisena – suo ex ministro e addirittura segretario a lungo del partito del presidente (il Sri Lanka Freedom Party, che teoricamente sarebbe un’organizzazione progressista di ispirazione socialista) che lo ha sfidato proprio puntando sulla stanchezza di un elettorato che avrebbe dovuto riconfermarlo per una terza volta su una poltrona che Rajapaksa si rifiuta di mollare..

Secondo Al Jazeera ci sarebbero state due esplosioni in due zone a Sud ed Est del Paese e, riferisce la Bbc, un altro boato ha diffuso il panico a Jaffna, la capitale “tamil” del Nord, cuore per oltre due decenni di una guerra senza quartiere contro le Tigri tamil e nel 2009 vinta dal governo al prezzo – si stima – di 40mila morti in stragrande maggioranza civili.
Infine la Campaign for Free and Fair Elections (CaFFE), un gruppo di monitoraggio locale del voto ha denunciato intimidazioni e pressioni. Poca cosa tutto sommato in una giornata tranquilla anche perché favorita dalla chiusura di tutti gli esercizi commerciali. Il risultato a giorni e comunque prima dell’imminente visita di Bergoglio nell’isola dei fiori che gli antichi chiamavano Taproane e in seguito divenne nota come Ceylon.
Le cose sono andate così: sull’onda della vittoria militare del 2009 Rajapaksa ha incassato il consenso di una buona fetta di singalesi (la comunità maggioritaria e in gran parte buddista dello Sri Lanka) e lo ha fatto senza rinunciare all’appoggio delle formazioni religiose radicali e identitarie che, in questi anni, hanno appoggiato campagne revisioniste della storia locale, rivendicato ai buddisti i luoghi sacri a indù o cristiani e dato alle fiamme villaggi musulmani.

Rajapaksa è anche piaciuto alla comunità imprenditoriale: finito il conflitto coi tamil – e dopo una vittoria elettorale a valanga che nel 2010 ha premiato la sua guerra – è tornato il turismo e commercio, edilizia e manifattura hanno conosciuto nuovo impulso.
Ma la luna di miele è durata fino al 2013 per poi annacquarsi durante le elezioni locali che hanno mostrato la debolezza di un Rajapaksa ormai diventato più che un padre un padrone del Paese: figli nei posti chiave, “crony capitalism” (capitalismo delle parentele, definizione che fu affibbiata al sistema clientelare del filippino Ferdinando Marcos per la prima volta), un disinvolto uso del potere, non ultimo l’escamotage per tentare la terza rielezione.

Infatti, dicono i maligni, quando il presidente ha visto la mal parata ha indetto nuove elezioni con un messaggio chiaro: che comunque avrebbe vinto lui. Se le urne lo confermano, via al terzo mandato. Se premiano invece Sirisena, Rajapaksa resterà ugualmente nella residenza di Galle Road ancora per due anni come capo dello Stato. E sarà dunque lui, vincente o perdente ma comunque vittorioso, a incontrare il papa che nei prossimi giorni verrà per una visita pastorale che ha messo in fermento la base. Cristiani (6%) tamil e musulmani (le minoranze che, al di là delle differenze religiose sono soprattutto tamil venuti secoli fa dall’India o importati durante il dominio britannico per lavorare nelle piantagioni) sono per altro la forza (30% dell’elettorato) su cui Sirisena ha puntato. E che potrebbe far sperare in un giro di boa meno nazional identitario e marcato da quel buddismo “armato” che, dalla Thailandia al Myanmar, ha davvero poco a che vedere col monaco che insegnò la Via di mezzo e l’amore per tutti gli esseri umani senza distinzione.