A un mese dalla morte di Sandro Margara, voglio ricordarlo attraverso uno dei suoi saggi più lucidi e originali, sulla storia del proibizionismo in Italia (contenuto nel volume che raccoglie i suoi scritti, «La giustizia e il senso di umanità», 2015).

Che ha anche il merito di offrire una bussola politica nella battaglia attuale per la riforma della legge antidroga.

Il «proibizionismo penale», come Margara lo definisce, è inaugurato dalla legge del 1954, che configura come reato l’uso e la detenzione delle sostanze stupefacenti. Punire il consumo in sé è uno strappo alla nostra civiltà giuridica e allo stato di diritto, nota Margara; ed è doppio strappo perché sono collocate nello stesso articolo le condotte di “chi acquisti, venda, ceda.. o comunque detenga” sostanze stupefacenti, equiparando così trafficanti e consumatori. Si noti: tale impianto (art. 73) è rimasto intatto nelle successive revisioni della legge antidroga ed è peraltro identico nella Convenzione Unica delle Nazioni Unite.

Da qui il discrimine che Margara individua, fra norme che cercano di “non colpire nel mucchio”, nella zona di confine fra piccolo spaccio e consumo, (come nella legge del 1975 e nelle modifiche del referendum del 1993); e quelle che invece prendono di mira proprio i consumatori, in specie i più «poveracci».

La legge Jervolino Vassalli del 1990 intraprende con decisione la seconda strada su cui la Fini Giovanardi vigorosamente accelera, così che «quella fascia di condotte di confine fra spaccio e uso personale, posta in essere in gran parte da meri consumatori o da consumatori che si autofinanziano» è governata dal giudice penale che discrimina fra incriminazione/non incriminazione.

E’ il giudice penale a stabilire se siamo nella «regola» dell’incriminazione a norma dell’art.73, o nella «eccezione», «fuori dalle ipotesi di cui all’art.73 comma bis», del consumo punito dalle sanzioni amministrative. E’ un sostanziale giro di vite proibizionista: nella legge del ’75, la norma base era al contrario rappresentata dai casi di non punibilità (la modica quantità); ma perfino nella Jervolino Vassalli la base era la norma a minore punibilità, con le sanzioni amministrative (art.75).

Si noti il forte richiamo allo stato di diritto, nella sua funzione di tutela della libertà e autonomia personale: un baluardo, specie per i più deboli. Tanto basti per ricordare che la battaglia contro il proibizionismo penale non è appannaggio dei radical chic, come vorrebbero alcuni manipolatori delle coscienze.

La lettura del proibizionismo penale qui ricordata permette di uscire dalle strettoie difensive nella battaglia per la depenalizzazione del consumo personale.

Il nodo sta proprio nella formulazione dell’articolo chiave, che enumera come punibili tutte le condotte, dal traffico alla detenzione. Buona parte del movimento riformatore – specie a livello internazionale- combatte perché dalla condotta di detenzione sia escluso il possesso per uso personale. Ma così si rischia di accettare la logica proibizionista, ossia la regola del “fucile che spara nel mucchio”: rispetto alla quale si chiede come eccezione di non colpire il consumo personale; o di punirlo meno severamente (con sanzioni amministrative). Dimenticando che la logica stessa del «mucchio» spinge il fucile a sparare in basso, contro i tanti che stazionano nella zona di confine fra consumo e (piccolo) spaccio.

Proprio questa va rovesciata: nel predisporre la riforma penale, occorre rimanere aderenti alla nostra tradizione di diritto, secondo principi di civiltà e umanità. Per dirla con le parole limpide di Sandro Margara: «molte scelte compromettono il mantenimento di una vita regolare e sana, nonché le relazioni con gli altri… ma la libertà della persona al riguardo non può essere inibita».