La lettura, e la comprensione, dei dati sull’occupazione è uno dei grandi problemi dei governi italiani. Lo è stato per il Pd renziano, lo è oggi per i Cinque Stelle.

La conferma è arrivata ieri. Oltre ai dati sulla recessione «tecnica», l’Istat ha comunicato quelli sull’occupazione e la disoccupazione a dicembre 2018. Nel quarto trimestre dell’anno scorso l’occupazione è salita dello 0,1% congiunturale, in assoluto 12 mila unità. L’andamento è stato prodotto dall’aumento dei dipendenti a termine (+47 mila) e dei lavoratori autonomi (+11 mila), mentre i lavoratori a tempo indeterminati sono calati di 35 mila unità. I dati sono ancora più chiari sull’anno: l’occupazione è cresciuta di 202 mila unità, sia tra le donne che tra gli uomini, grazie al precariato e agli «indipendenti», mentre i lavoratori «permanenti» sono diminuiti di 88 mila unità. Così si spiega il singulto del tasso di occupazione (58,8%), già registrato nel corso degli ultimi due anni. Ora è tornato ai massimi rispetto ai livelli pre-crisi. Nell’aprile 2008 era al 58,9%. Ciò non toglie che sia uno dei più bassi dell’Eurozona dopo la Grecia (38,5%) e la Spagna (32,7%). Segno che in Italia si lavora poco e male, senz’altro meno che nel resto d’Europa.

Dopo un rallentamento, i contratti a termine sono dunque tornati a correre a dicembre (+47 mila) mentre quelli fissi sono tornati a calare (-35 mila). Il lieve aumento dei contratti fissi registrati dall’Osservatorio Inps sul precariato nell’ultimo trimestre si deve a un andamento «fisiologico» delle trasformazioni a «parità costante». Questo significa che l’aumento è stato dovuto solo a un maggior numero di trasformazioni a tempo indeterminato.

In più sono aumentate le domande del sussidio «Naspi», segno che si perdono anche posti di lavoro. Può essere la conseguenza dei contratti a termine scaduti, e non rinnovati, e anche della fine del periodo della cassa integrazione. In generale parliamo di aumenti irrilevanti rispetto a una platea di 17,9 milioni di dipendenti, di cui 14,8 milioni permanenti e tre milioni «precari». Questa è la rappresentazione statistica di un mercato del lavoro stagnante.

Senza troppo prestare attenzione a questa situazione, e al fatto che al momento dai dati Istat non emerge alcun impatto delle nuove norme introdotte dal «decreto dignità», ieri i Cinque Stelle hanno scoccato una freccia contro il Pd. Al partito che ha deregolamentato i contratti a termine con il decreto Poletti hanno chiesto: «Parlavano di decreto disoccupazione, dove sono ora?». Ora dicono le stesse cose di un anno fa, ma non è questo il punto.

L’impressione è che i Cinque Stelle attribuiscano l’aumento degli occupati al «decreto dignità», approvato in agosto ed entrato in vigore davvero a novembre 2018. Così facendo confondono l’aumento delle trasformazioni dei contratti a termine in contratti «fissi» (senza articolo 18, secondo le regole del Jobs Act) registrato dall’Inps con l’aumento dei contratti a termine visto dall’Istat. L’aumento degli occupati sarebbe il frutto dei nuovi contratti a tempo indeterminato, mentre dai dati risulta l’opposto: è dovuto al precariato. Ieri alla Camera il vicepremier Di Maio ha presentato la campagna informativa: «Se lo diciano, lo facciamo».

Il movimento organizzerà banchetti in tutto il paese per esporre i suoi risultati. Forse sarà l’occasione di fargli capire che le cose stanno diversamente.
«I dati sull’occupazione sono una conferma della recessione. Tutto questo a cinque mesi dall’entrata in vigore del Decreto dignità» sostiene invece la Cgil di Maurizio Landini che manifesterà a Roma contro il governo, insieme a Cisl e alla Uil, sabato 9 febbraio.