Abbiamo finalmente mollato gli ormeggi. Tra i molti temi positivamente e problematicamente evocati dall’inizio della navigazione che, dall’assemblea di domenica scorsa, ci condurrà alle elezioni politiche e oltre, vi è un punto che mi sta particolarmente a cuore chiarire e discutere.

Credo infatti che le questioni di genere non vadano considerate un dettaglio, o elemento collaterale, ma essere fattore costitutivo, direi genetico, della cultura politica, del profilo programmatico, dell’identità stessa della “nuova proposta” a cui, in tante e tanti, ci siamo messi a lavorare.

Ce lo ricordano le puntuali osservazioni di Norma Rangeri, che ieri ha scritto su questo giornale come le immagini dell’Atlantico mostrino «tre baldi quarantenni e nemmeno una delle molte compagne di viaggio dopo tante belle parole sulle battaglie di genere».

Ed è altrettanto condivisibile l’affermazione a Repubblica «ci sono troppi maschi in giro» di Nadia Urbinati, che peraltro ringrazio per i gratificanti giudizi complessivi.

Queste annotazioni rispecchiano una ricca discussione in corso nella rete, animata da centinaia di compagne (e pure qualche compagno), che chiama in causa anche il nome del nostro percorso, enunciato da Pietro Grasso al termine del suo discorso: “Liberi e Uguali”.

Ma è soprattutto la realtà sociale a parlarci di quanto e come le questioni di genere siano nodo politicamente in-e-lu-di-bi-le. Proprio perché vogliamo costruire una connessione, nuova e solida, tra la politica e la società. E della società la sua composizione più avanzata e matura.

Ce ne parla quello che, in questo momento, è forse l’unico movimento sociale che si presenta sulla scena globale con straordinaria forza argomentativa e moltitudinaria: la formidabile onda planetaria di “Non una di meno”.

A noi uomini (intesi come maschi) attivi in politica, se vogliamo comprendere come si scrive un programma, consiglio vivamente la lettura, anzi direi lo studio, delle 57 pagine del «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere».

A quanti fra di noi si interrogano sulla crisi della partecipazione, suggerisco di frequentare le centinaia di assemblee territoriali e le piazze riempite da decine di migliaia di donne (e non solo), fino all’ultimo corteo del 25 novembre scorso a Roma.

Un movimento capace di mostrare come la violenza patriarcale sia elemento tragicamente determinante tra le forme, vecchie e nuove, di oppressione. E come non sia possibile analizzarla, e quindi combatterla, se non ricollegandola al ruolo decisivo giocato dal lavoro di cura e dalle forme, vecchie e nuove, in cui non viene riconosciuto ed è anzi sfruttato.

Per queste e molte altre ragioni, per quanto mi riguarda “Liberi e uguali” è da leggere e pronunciare, fin da subito, come “Libere e Liberi. E uguali”.Trasformando quella “e” da semplice congiunzione in piena soggettivazione.

La stessa parità di genere, cui molti hanno fatto riferimento negli interventi domenica, non basta. Se «la libertà di tutti è condizione delle libertà di ciascuno» (e viceversa), è dal riconoscere le differenze che non possiamo prescindere.

Avremmo invece bisogno, come ci ricorda spesso Ada Colau, di “femminilizzare la politica”, i suoi modi e i suoi contenuti. Nei nomi e nei discorsi, nei programmi e nelle candidature, dobbiamo essere capaci di passare dalle parole ai fatti, ritrovando tutti questi elementi di riconoscimento e innovazione.

Nel 1791 Olympe de Gouges – poi ghigliottinata perché aveva «dimenticato le virtù che convengono al suo sesso, immischiandosi nelle cose della Repubblica» – scrisse una “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” come indispensabile controcanto alla Dichiarazione, tutta al maschile, dell’Ottantanove.

Da allora tanta strada è stata fatta, ma tanta è ancora da percorrere. Per il prossimo tratto sono pronto a fare collettivamente la mia parte.