Gli arabi dicono «Issaa ya abed wa ana assaa maak». Più o meno il nostro «Aiutati che Dio ti aiuta». In Libano sempre più cittadini lo ripetono ai profughi siriani, un milione e mezzo tra registrati dall’Onu e “clandestini”, giunti del paese dei cedri dal 2011 in poi. In parole povere: affrettatevi a rientrare in patria.

I civili siriani in fuga dalla guerra sono così sgraditi al punto da non essere neppure definiti profughi di guerra ma semplicemente «sfollati», anche se hanno dovuto attraversare la frontiera con il Libano, come altri milioni di rifugiati siriani hanno fatto con la Turchia e la Giordania.

Non è una notizia nuova. Ma nelle ultime settimane è tornata di grande attualità. Il ministro degli esteri Gebran Bassil, genero del presidente Michel Aoun, emulando i populisti europei che raccolgono consensi crescenti con le loro politiche di chiusura verso i migranti e i rifugiati africani e mediorientali, ha deciso di usare il pugno di ferro addirittura contro l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che si oppone alla politica libanese volta a rispedire a casa, in tempi possibilmente stretti, tutti i profughi senza attendere la completa cessazione delle ostilità in Siria.

Una linea dura arrivata a bloccare la concessione dei visti di lavoro e di residenza per funzionari e dipendenti stranieri dell’Unhcr.

Senza dubbio un milione e mezzo di profughi è un peso enorme per il Libano, paese minuscolo (10,452 kmq) con sei milioni di abitanti e un reddito pro capite di poco più di 11mila dollari e che già ospita mezzo milione di rifugiati palestinesi della guerra del 1948.

Peso che si è riversato sulla scuola più di tutto e su alcuni servizi sociali a danno diretto delle famiglie più povere costrette a fare i conti anche con l’aumento degli affitti e la diminuzione della paga giornaliera per i lavori manuali che i profughi siriani, privi di tutto, accettano senza fiatare.

Senza dimenticare che i profughi che hanno lasciato il nord e l’est del paese in cerca di lavoro, una volta a Beirut e in altre città, si sono ammassati nelle periferie più degradate, a diretto contatto con la già nutrita porzione di popolazione libanese a basso reddito che, non a caso, è quella che ora ne chiede l’espulsione a gran voce.

Una situazione che avrebbe richiesto un intervento di largo respiro economico e sociale. Ma gli ultimi governi libanesi, spiega Makram Rabbah, docente dell’Università americana di Beirut, cavalcando l’onda del rifiuto «non hanno messo a punto un piano nazionale per i rifugiati in modo da assicurarsi fondi sufficienti dalla comunità internazionale e dalle agenzie competenti e neppure hanno scelto di collaborare con le Nazioni unite per trovare una soluzione condivisa alla crisi dei rifugiati. Piuttosto hanno scelto di incolpare l’Unhcr e la comunità internazionale di ostacolare il ritorno dei rifugiati in Siria».

Bassil perciò gioca la carta del populismo per raccogliere consensi. Dopo aver letto la relazione di un suo team inviato il 7 giugno ad Arsal – città libanese della Bekaa sul confine orientale con la Siria dove si sono fermati 80mila profughi del distretto di Qusair e dal Qalamoun – , secondo la quale l’Unhcr scoraggerebbe i rifugiati dal rientrare in Siria, il ministro ha ordinato di congelare l’esame delle domande di residenza per lo staff dell’agenzia delle Nazioni unite.

Una mossa alla quale il 12 giugno l’Unhcr ha risposto affermano il rispetto del diritto dei rifugiati di decidere liberamente e senza costrizioni. Parole che hanno indispettito Gebran Bassil che, due giorni dopo, incontrando a Ginevra Filippo Grandi, capo dell’Unhcr, ha affermato che il blocco dei visti di soggiorno avrà fine solo dopo un cambiamento nella politica dell’agenzia.

Timide critiche a Bassil, incentrate sull’opportunità di attaccare frontalmente le Nazioni unite, sono giunte dal premier Saad Hariri e da alcuni membri del governo. Ma il ministro prosegue la sua politica. Nessun politico libanese ha voglia di perdere sostegno popolari difendendo i profughi e l’Onu. E ora il governo e alcune forze politiche appoggiano l’apertura di 10 «open center», gestiti dai servizi di sicurezza, per accelerare le procedure per il rientro dei rifugiati intenzionati a tornare a casa.

I funzionari dell’Unhcr resistono. Ripetono che il ritorno dei profughi in Siria dovrà avvenire solo in condizioni di sicurezza. Per il Libano invece la guerra è finita e la maggior parte delle città siriane sarebbero ormai sicure. Beirut ha già presentato a Damasco 3mila domande di rifugiati, in apparenza pronti a rientrare senza costrizioni, che le autorità siriane stanno esaminando. A fine giugno circa 600 siriani, da anni fermi sul confine, hanno fatto ritorno in Siria.