Le dita di Kemal corrono incerte sullo schermo del suo cellulare: «Non funziona, non riesco a completare l’operazione», dice mentre tenta di concludere la vendita di lira turca e l’acquisto di euro attraverso l’applicazione della sua banca. Il servizio non sembra raggiungibile proprio in una giornata in cui il panico corre sui mercati e la lira crolla vertiginosamente del 15%. Kemal non è l’unico, su Twitter in molti condividono gli screenshot delle schermate con errori di sistema. Per fortuna le banche non hanno ancora chiuso gli sportelli, è più un problema di sovraccarico e di continue fluttuazioni che mandano in tilt i sistemi, ma non è comunque un bel segnale.

Il crollo della valuta nazionale turca nei confronti di dollaro ed euro è l’argomento sulla bocca di tutti. Nel negozio di alimentari sotto casa, Hasan, il proprietario, pensa già che domani dovrà ritoccare in alto i prezzi di tutte le merci esposte, dagli ortaggi ai prodotti caseari, dalle uova ai confezionati. Ormai capita di continuo in un Paese dove l’inflazione ufficiale è stimata al 13%, una cifra a cui in pochi credono: si stima che l’inflazione al consumo sia almeno al 15% e addirittura al 24% quella alla produzione.

La giornata di ieri è stata tremenda, ma il trend negativo ha ormai una storia pluriennale. A Rumeli Kavagi, un villaggio di pescatori all’imboccatura del Bosforo, sul Mar Nero, ci si prepara all’avvio della stagione di pesca, fissata per legge al 1° settembre. C’è da acquistare il gasolio, rimettere in ordine i macchinari, comprare le scorte per quando si è in mare. Ma molti pescherecci quest’anno non prenderanno il largo: alcune famiglie hanno dovuto vendere le barche, complice anche l’annata scorsa tutt’altro che rosea. Per coloro che ancora ce la fanno, l’indispensabile accesso al credito si è fatto sempre più proibitivo e qualcuno ha dovuto ricorrere a canali meno sicuri, quelli dell’usura.

Orhan lavora da anni nei locali serali di Kadikoy, un quartiere in crescita sulla sponda asiatica di Istanbul. Qui, bar e locali nascono e muoiono nel giro di pochi mesi, a volte di poche settimane, complice sia la concorrenza spietata, sia l’aumento ripetuto delle tasse sugli alcolici di un governo ideologicamente ostile e bisognoso di aumentare le entrate. Ma soprattutto, dice Orhan, è la gente che ora spende meno. Anche le famiglie benestanti devono tenere un occhio di riguardo al portafoglio, perché la pacchia pare essere finita.

L’economia turca ha galoppato forte all’inizio degli anni 2000, quelli in cui il presidente Recep Tayyip Erdogan ha costruito il suo consenso grazie a una crescita vertiginosa, riforme liberiste e alla costruzione di un welfare con servizi che mancavano da sempre. Ci era riuscito grazie anche a una congiuntura economica favorevole: negli anni della grande crisi dei mercati europeo e americano, gli investitori avevano indirizzato le loro speranze verso i mercati emergenti, Turchia in prima fila.

Ma oggi tutto questo è cambiato e il Paese si trova ad affrontare uno scenario nerissimo, fatto di contrazione degli afflussi di quei capitali esteri di cui è bisognoso e di tumulti regionali che compromettono i rapporti con i Paesi che trainano l’economia turca: quelli europei e gli Stati Uniti.

Il deficit commerciale della Turchia, Paese produttore di beni a basso valore aggiunto e importatore di tecnologia ed energia, è passato tra il 2016 e il 2017 da 33 miliardi di dollari a quasi 50. Non arriva più ossigeno dall’estero e così è salita l’inflazione. Sia lo Stato turco che le aziende nazionali faticano a ripagare i debiti contratti in valuta pregiata e devono offrire condizioni sempre più insostenibili pur di attrarre i necessari finanziamenti.

Diversi giganti dell’economia turca, in particolare nel settore edilizio che aveva fatto la parte del leone e oggi è sempre più in affanno, hanno dovuto rinegoziare il debito con le banche creditrici, ovviamente a condizioni peggiori. La Banca centrale europea ha emesso per la prima volta una nota di preoccupazione per le banche che hanno contratto credito in Turchia, in particolare quelle spagnole (circa 80 miliardi di dollari) e francesi (40 miliardi), mentre le banche italiane vantano crediti per poco meno di 20 miliardi che, a questo punto, non è più certo possano essere onorati.

Il governo turco ora accetta una previsione di crescita attorno al 3-4%, più sostenibile rispetto al 5.5 desiderato, un segnale suona come una resa nei confronti della realtà dei fatti. E ad Ankara in pochi lo ammettono, ma si rincorrono le voci di una richiesta della Turchia per un prestito del Fondo monetario internazionale. Il Paese vi aveva già fatto ricorso negli anni ’90, quando attraversava una crisi simile a quella di oggi. Le riforme liberiste di Erdogan avevano consentito di ripagare il debito, con un ovvio tornaconto in termini di immagine politica.

Difficile pensare che Erdogan accetti di tornare a elemosinare soldi a coloro che considera i responsabili della crisi attuale, di fatto annullando i vecchi successi. Ma più passa il tempo, più la medicina per l’economia turca sarà amara, come il boccone che il reis portoghese dovrà ingoiare.