Le città sono storicamente i luoghi della convivenza umana, quali che siano le diverse forme di questa convivenza. Sono luoghi di socializzazione, di incontro, di scambio, di riconoscimento dell’altro, di innovazione. In esse la convivenza non è necessariamente pacifica, ma da sempre in essi si materializzano le relazioni tra differenti culture e le opportunità di un’accoglienza dell’altro.

Tuttavia il motto: l’aria della città rende liberi si è prolungato ben oltre l’epoca in cui gli schiavi sottoposti al lavoro nei campi potevano diventare realmente liberi se avessero trovato lavoro in città. Perché la città è stata sempre il luogo delle opportunità, degli incontri, della cultura, dell’accoglienza. Oggi il paradigma dominante dell’economia neoliberista, basato sul mito dell’affermazione individuale, è prevalso anche nella politica della città, nella vita quotidiana della città; si è diffuso molecolarmente nelle relazioni tra gli individui. Così che la città da oikos e culla, grembo materno, rifugio, si è trasformata in un incubo, in un paesaggio darwiniano dove sopravvive solo «il più adatto».

E le città europee sono sempre state luoghi nei quali le differenze specifiche non hanno mai dato vita a rigide politiche delle identità. L’aria delle città rendeva liberi anche perché le realtà comunali sono sempre state luoghi di incrocio tra identità diverse, laboratori di meticciato, a differenza degli Stati unitari che hanno spesso perseguito obiettivi identitari basati sul rapporto esclusione/inclusione.

E dalle città europee sono partiti i movimenti culturali, le innovazioni politiche e scientifiche mentre le politiche basate sull’identità hanno mortificato le spinte innovative prodotte all’interno di esse.
Uno degli argomenti più a favore della globalizzazione è stato quello che con essa si abbattevano le barriere nazionali: nessuno più ostacolo alla libera circolazione delle merci e dei denari. E’ successo invece che gli stati nazionali, pur perdendo parte notevole della loro sovranità, stanno erigendo barriere fisiche contro i «nemici» che provengono dai paesi del sud del mondo per difendere l’opulenza conquistata attraverso il colonialismo predatorio. Così l’Europa rinnega, come molti autorevoli studiosi hanno fatto rilevare, la sua grande tradizione di luogo di incontro e di scambio, di culla originaria di una cultura e di una scienza alla base della civiltà moderna.

La vocazione dei territori e delle città non è quella di essere luoghi culturalmente autarchici e segregativi. Al contrario sui territori si intrecciano storie e nascono nuove identità perché essi sono gli esiti di una lunga coevoluzione tra cultura e natura, così come le città sono plurimondi di vita.

Noi appartenenti alla Società dei Territorialisti che coltiviamo l’idea di un territorio come intreccio di vita umana e natura, ci dichiariamo contrari a ogni costruzione di muri, contrari ai respingimenti umani, contrari all’uso di esso come luogo di discriminazione e separazione, contrari a ogni forma di difesa identitaria basata sul riconoscimento esclusivamente nazionale. Pensiamo che si debba ricordare il ruolo fondamentale delle città come luoghi dello stare insieme, della convivenza, della solidarietà.

E occorre ripensare i nostri territori e soprattutto le loro aree interne in via di spopolamento, come possibili contenitori destinatari di una rinascita che veda nel migrante uno dei protagonisti: luoghi da cui ripartire come momento dell’accoglienza, per porre le basi di legami non solo occasionali; trama e ordito di un tessuto sociale in cui si riconoscano e crescano le generazioni future.

Oggi che milioni di diseredati fuggono dai propri paesi per guerre, per fame, per cambiamenti climatici insostenibili, le città europee e i loro abitanti hanno l’opportunità, come successo recentemente in molti comuni italiani, austriaci, germanici, di accoglierli per ricostruire il senso originale della città.

Il nostro non è dolce e ingenuo buonismo. Sappiamo che la convivenza non è mai pacifica, che essa ha un costo fatto di rinunce e di dolorose ibridazioni. Sappiamo che molte persone la sentono minacciosa; immaginano e temono che essa possa attentare alle loro sicurezze acquisite spesso a caro prezzo e con grande sacrifici. Ma se inseguissimo questa tendenza tradiremmo il senso profondo della nostra storia europea che ha nei territori e nei municipi le sue più alte espressioni di civiltà.

Da questa storia grandiosa ci viene anche una lezione: è stato proprio il processo di ibridazione di popoli e culture svoltosi in forme anche cruente per secoli nel Mediterraneo a fare grande l’Europa, come ci ha insegnato Fernand Braudel.

* * * Alberto Magnaghi (Presidente della Società dei Territorialisti), Paolo Baldeschi, Mariolina Besio, Piero Bevilacqua, Luisa Bonesio, Paola Bonora Gianluca Brunori, Roberto Camagni, Lucia Carle, Giuseppe Dematteis, Sergio De La Pierre, Francesco Lo Piccolo, Sergio Malcevski, Ezio Manzini, Anna Marson, Ottavio Marzocca, Massimo Morisi, Raffaele Paloscia, Giancarlo Paba, Rossano Pazzagli, Luigi Pellizzoni, Tonino Perna, Daniela Poli, Marco Slanislao Prusicki, Massimo Quaini, Saverio Russo, Enzo Scandurra, Gianni Scudo, Alberto Tarozzi, Giuliano Volpe